TRAMA
Nove ritratti femminili.
RECENSIONI
Dopo LE COSE CHE SO DI LEI Rodrigo García compone un nuovo mosaico di tormentate figure femminili, prigioniere degli ambienti (l’en plein air dell’ultima storia non è che un miraggio), delle circostanze e della propria incapacità di mutarle e/o adeguarvisi. La teoria di piani sequenza dipinge con efficacia l’atmosfera opprimente e la totale mancanza di vie di scampo: lo schermo ospita nove variazioni sul basso ostinato del dolore solitario, le illusioni (l’amore, l’amicizia, l’indipendenza) si sgretolano, emergono le maglie dell’invisibile catena che unisce le esistenze fra loro (gli stessi gesti, le medesime parole passano da un personaggio all’altro) e ai rispettivi fardelli.
Il problema di NINE LIVES è la forte disomogeneità fra un bozzetto e l’altro: a sequenze asciutte, seppur venate di maniera (Sandra, Camille), si alternano siparietti melò (Diana, Holly) e storie più o meno edificanti (Samantha, Ruth). Non mancano frammenti riusciti (la corsetta “fuori dalle righe” di Sandra, la discesa di Holly nell’oasi dell’infanzia), ma la verbosità di stampo metalinguistico (“le nostre vite sono tutte collegate”) ha quasi invariabilmente la meglio. Evitano il naufragio Lorna, che fonde dialoghi brillanti e una buona vena grottesca, e soprattutto Sonia, una gemma: una serata fra amici (ma non troppo: l’amore sfiorisce e non perdona), due coppie che si specchiano letteralmente l’una nell’altra, il peso dell’implicito (vedi anche Diana) che alimenta una lite in sordina, fra gelido disprezzo e mesta apatia. L’epilogo (Maggie) affascina più sulla carta che sullo schermo, ma questo si può dire anche del film nel suo complesso: solo il cast merita allori incondizionati.
Produttore esecutivo (niente di bizzarro, dato il tema) è Alejandro González Iñárritu. Pardo d’oro e Premio (collettivo) per la migliore interpretazione femminile a Locarno 2005.
Nove storie, nove piani sequenza, nove donne e più misteri: Sandra, carcerata che fa di tutto (compreso la delatrice) pur di riuscire a strappare alle guardie l’autorizzazione a comunicare con la figlia; Diana, che casualmente incontra in un supermercato un vecchio amore “rimosso”; Holly, che cerca di fare i conti con il proprio passato mettendo il padre (la guardia carceraria del primo episodio) di fronte alle proprie responsabilità; l’adolescente Samantha, che si dibatte quale unico tramite tra la stanza del padre e della madre (Sissy Spacek) in crisi; Sonia, che non si capacità della superficialità e leggerezza del compagno, pronto a svelare ad una coppia di amici (lui è il vecchio amore di Diana) i segreti del loro rapporto; Lorna, responsabile suo malgrado della morte della moglie di un amico innamorato di lei; Ruth, la madre di Samantha, che cerca di sfuggire alla monotonia di una vita matrimoniale priva d’amore ricercando piaceri furtivi in un motel; Camille che, prossima ad un’operazione chirurgica, si abbandona all’inquieto e perverso piacere della perdita di controllo del proprio corpo; Maggie, madre premurosa, donna “stanca”. E’ proprio la “stanchezza” di vivere il minimo comun denominatore delle storie, una spossatezza esistenziale che deriva dalla stato di prigionia, voluta o meno, nel quale le protagoniste sono costrette a vivere, che sia effettiva (Sandra), “matrimoniale” (Diana, Ruth), filiale (Holly, Samantha). Se la struttura narrativa episodica con personaggi principali ritornanti “in secondo piano” in altri racconti non offre nulla di originale, la delicatezza e la sensibilità con la quale Rodrigo Garcia riesce a riassumere in pochi tratti essenziali ed esaustivi la vita di nove donne perdute, estrapolando dalle loro esistenze attimi più o meno straordinari, in grado di permettere allo spettatore di ricostruirsi un ipotetico “prima” e “dopo”, sono davvero rimarchevoli, così come funzionale al racconto, e non mero sghiribizzo stilistico, risulta la scelta di girare in continuità, senza stacchi, ogni singolo frammento di questo efficace e “polifonico” romanzo “rosa”. Cast femminile in stato di grazia.
Lo schema del film, già adottato in Things you can tell just by looking at her (Le cose che so di lei), è tipico di chi voglia assegnare alla propria narrazione un respiro corale anche quando le atmosfere sono quelle di una composizione da camera: i personaggi varcano i confini del microepisodio di cui sono eponimi per comparire a vario titolo negli altri. I rapporti con gli uomini – rapporti conflittuali, offensivi, violenti, fallimentari, agonizzanti, rovinosi, noncuranti – ne sono la nota dominante; ed è nota monotona, perché sembra che (quasi) tutte le donne di Garcia non sappiano vivere se non collocando al centro del proprio io le relazioni coll’altro sesso e la famiglia: donne le cui difficoltà esistenziali sono visualizzate nel procedere, in un piano sequenza che risolve l’episodio, attraverso stanze e corridoi per arrestarsi contro una porta chiusa o una parete o un divisorio o un’inferriata. Due le eccezioni: in un caso, la donna è già legata in un letto d’ospedale; la scena dell’altro è all’aperto, ma il suo punto finale è una lapide.
Il sentimentalismo che trapela, anche per una colonna sonora che s’infiltra zuccherosa in ogni dove, anziché arginato viene potenziato dal modo letterario, artificioso in cui vengono dipanate le diverse situazioni, perfino le più promettenti (Diana): è sempre un rischio voler programmaticamente imporre una forte e costante intensità emotiva, anziché lasciarle modo di affermarsi in virtù della costruzione drammatica e introspettiva, qui molto detta ma poco sentita. E non è questione di un eccessivo affollamento di figure, se un film che vorrebbe comporre con partecipazione 9 ritratti femminili ha realizzato non spiacevoli siparietti – con una caduta nel ridicolo (Lorna) – le cui protagoniste di rado riescono a stagliarsi sullo sfondo; ci vuole una sapienza di teatrante e drammaturgo che Garcia possiede solo saltuariamente (gli invocati numi tutelari Cecov e Carver sono lontani), mentre è posseduta in grado sommo da un Altman, che in poco più di due ore sa infondere vera vita a trenta personaggi, per di più impedendo a ciascuno di essi di prendere solitario possesso della scena.
Nel panorama diseguale, menzione agli episodi (Sandra, Holly, Sonia, Camille) la cui densità è distillata negli spigoli della messinscena o nell’inusitato spessore, per colmo di fortuna non amabile, del personaggio. Fra le attrici, tutte di asciutta bravura, ancora una volta primeggiano Holly Hunter – una sinfonia di grigi, il suo volto – e Glenn Close, cui viene negato il primo piano elargito con generosità alle colleghe, ma che pure in un gesto rattenuto, in un impulso improvviso, in un breve sperdimento fa valere la sua maiuscola statura d’interprete.