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TRAMA
Tre storie sul vagone di un treno: un anello rinvenuto nella profanazione di una tomba egizia, una donna alla ricerca del volto perfetto, un lago ed il suo oscuro abitatore.
RECENSIONI
Sergio Stivaletti, laureato in necrofilia sul cadavere di Dario Argento, trova il tempo di affrancarsi dal suo storico “datore di lavoro” per esibire una confezione tutta propria (per la verità la seconda, dopo il discutibile M.D.C. – MASCHERA DI CERA): il risultato è un intrigo di tremolii e citazioni da fine agosto, che nell’interzona estiva prodiga di horror sortisce l’effetto di sollevare una riflessione sulla sua stessa natura. Rinascita o crisantemi sulla tomba di un genere? Il viaggio (letterale) procede per evidenti stereotipi (ma forse è meglio parlare di “miti”, in questo caso) e ricalca pedantemente la tradizione dell’horror all’italiana: dalla messinscena sgranata ed ostentatamente povera fino agli attori volutamente rustici e sconosciuti (escluso John Phillip Law come citazione vivente, un braccio di ferro tra Belzebù e Caronte). E ancora: i rovesciamenti palesi, vari mostri di tutti i tipi, effetti speciali esagerati –studiatamente “incredibili”- ed il classico controfinale che interrompe i titoli di coda. Scovare tutte le opere cui si fa riferimento è impresa fluviale che lascerò al lettore, limitandomi a segnalare la tensione prolungata in pieno stile Argento (anfratti bui, orrori dietro tendaggi: il capo è sempre il capo) e la tipica struttura episodica in odore di Bava ed a seguire della serie americana I RACCONTI DELLA CRIPTA. Con tutti i suoi limiti strutturali (il deja-vù tirato fino all’estremo, la mancanza di iniziativa narrativa) il lavoro di Stivaletti si rivela tra le migliori uscite di una stagione, quella estiva, che si vorrebbe grande a parole ma continua a vacillare nel nulla: l’horror di casa nostra, in decomposizione da un discreto ventennio, lazzarescamente si rialza dalla tomba per diventare un simpatico zombie di un’oretta e mezza. Feticcio per appassionati, certo. Momenti di goduria registica senza possibili obiezioni (corridoi, sogni, risvegli, metamorfosi, tanto sangue), inutile negarlo. L’augurio di una seconda carriera a Stivaletti si sprecherà, possiamo scommetterci. Ma rimane un dubbio, anzi una pugnalata: possibile che l’horror si affidi ormai alla formula dell’omaggio? I convitati cantano e ballano, qualche fuoco d’artificio, alla fine rimane un vago senso di divertimento: ma è pur sempre una festa in cimitero.

A otto anni dall'esordio come regista ("M.D.C. - Maschera di cera"), Sergio Stivaletti, mago degli effetti speciali "made in Italy", torna dietro la macchina da presa e prova a rinvigorire il genere horror rispolverandone le radici più genuine. Il suo, infatti, e' un vero e proprio omaggio al cinema ruspante e sperimentale che per oltre un ventennio (dagli anni Sessanta ai primi anni Ottanta) ha dominato nella produzione nostrana incontrando le preferenze del pubblico. Le intenzioni del regista sono esplicite fin dal titolo, che combina due classici come "I tre volti della paura" di Mario Bava e "Le cinque chiavi del terrore" di Freddie Francis e trovano consistenza nella struttura a episodi e nella scelta del simpatico John Phillip Law (un volto familiare per i frequentatori del "genere") come protagonista e collante delle singole micro-storie. La prima, "L'anello della luna", sceglie un tema piu' che classico, la profanazione di un sepolcro in grado di risvegliare le sonnecchianti forze del male, e pur affidandosi a meccanismi elementari di suspence, si lascia guardare con divertimento; efficace, pur nella sua prevedibilita', la progressione del racconto e riuscita la trasformazione a vista del protagonista in licantropo, anche se il confronto con "Un lupo mannaro americano a Londra" di John Landis e' impari, soprattutto considerando i venti anni e piu' di distanza. La seconda tappa nei meandri dell'orrore casareccio, "Dr. Lifting", si basa sui segreti "professionali" di un medico specializzato in interventi di chirurgia estetica ed e' sicuramente l'episodio piu' riuscito, per la vena caustica che lo anima e perche' con pochi azzeccati dettagli riesce a creare i presupposti dell'azione. Il terzo, "Il guardiano del lago", e' invece il peggiore. Il perno narrativo e' ancora la sacrilega profanazione, questa volta pero' non di una tomba ma di un lago, con tre giovani non propriamente vispi che si trovano a fronteggiare l'orrendo guardiano degli abissi. La storiella e' appena abbozzata e insufficiente a giustificare gli sviluppi, e gli effetti speciali (il mostro della laguna) cercano consolazione nel passo-uno di Ray Harryhausen ma finiscono per ricordare il trash dei lucertoloni in gomma di certa fiction giapponese ("Megalomen" in primis). A dare coesione al tutto, uno stile visivo che si affida al supporto digitale (sporco e bruttarello nonostante i miracoli del direttore della fotografia), una regia che riesce a non soccombere alla scarsita' del budget, una recitazione tutto sommato dignitosa (contravvenendo, in questo caso, alle regole del "genere"), una colonna sonora un po' trita ma capace di trovare il necessario "sense of wonder", e un'atmosfera divertente e divertita di gioco con il cinema e i suoi cliche'. Se i fan di Bava, Fulci, Freda & Co. troveranno di che gioire, cogliendo citazioni e desiderio di imprimere nuova vita a un "genere" ormai desueto, apprezzando anche l'artigianato e il senso di precarieta' che trasudano dai fotogrammi, gli altri si fermeranno con tutta probabilita' al perimetro del film, evidenziandone i palesi limiti, sia estetici che di sceneggiatura. Il giudizio critico si colloca nel mezzo, una parte sta al gioco e se la passa con moderata partecipazione, ma l'altra vorrebbe che oltre al languore per il bel tempo che fu (la sopravvalutazione e' nell'aria), si riuscisse anche a dare vita a qualche cosa di personale che traesse vigore dalla forza di un'idea. Possibilmente, ma questo e' chiedere troppo, non sempre la stessa.
