Azione, Focus, Poliziesco, Recensione

DIE HARD – VIVERE O MORIRE

Titolo OriginaleLive Free or Die Hard
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata130'
Fotografia

TRAMA

Un’organizzazone criminale, contando sul supporto tecnico di uno stuolo di nerd, vuole distruggere tutte le infrastrutture tecnologiche americane per ricavarci un sacco di soldi. John McClane non ci sta.

RECENSIONI

Autoconsapevolezza ironica o consapevolezza autoironica, fate voi: è lo scherzarci apertamente su, il dire tra un’alzata di sopracciglio e un sorrisetto furbo -“so cosa sono, dunque sono”- che fornisce al blockbuster americano tutto azione e popcorn l’alibi per esistere ancora oltre i confini dell’australopithecus dello spettatore cinematografico. Specie quando la qualità intrinseca del prodotto non concede altri alibi accessori. Live Free or Die Hard, purtroppo, non ha alibi né del primo né del secondo tipo, o almeno, ne ha davvero pochini. Intanto tradisce un po’ lo spirito della saga, fondata sui fattori tensione&ritmo legati al risaputo meccanismo “limitato spazio d’azione” (il grattacielo, l’aeroporto) + “corsa/e contro il tempo” (la struttura a tappe del terzo capitolo): il film di Wiseman (che misteriosamente ri-chiede a Duggan di virare tutto al blu, come in Underworld Evolution, dove la cosa poteva avere un “gotico” senso) si configura invece come un canonico film d’azione, ben poco teso e fondato su un malinteso senso del ritmo, che soprattutto non ricrea affatto il family feeling della serie, se non limitatamente a sprazzi di parossismo spettacolare che però sembra distribuito un po’ a casaccio, senza una precisa strategia che ne disciplini i come i dove e i perché. Ma se è comunque innegabile che alcune sequenze isolate non manchino di efficacia (specie quando si rinuncia al montaggio in favore dell’”effetto diretta”), altrettanto non si può dire dell’impianto narrativo preso nel suo complesso e della sceneggiatura analizzata nel dettaglio delle situazioni e dei dialoghi. L’attacco informatico, gli hacker, i virus, è tutta roba ammuffita, nata vecchia e ulteriormente invecchiata da una metastasi di stereotipi e di clichè cinematografici che poco o nulla hanno a che spartire col “realismo” da leggersi come “minimo sindacale di sospensione di incredulità”… e qui sono soprattutto i dettagli a fare la differenza: Die Hard 4.0 è un florilegio di password da 34 caratteri digitate in 7 centesimi di secondo e di laptop sempre pronti all’uso che collegati “da qualche parte” con “qualche cosa” in pochi secondi entrano “ovunque” e decriptano “qualunque cosa” grazie al nerd di turno che digita a casaccio mentre sul monitor barre verdi e rosse fanno tanto countdown e freccette/vettori invertono il senso di marcia dando consistenza iconica a cosa cazzo sta succedendo qualunque cosa sia. Ma per piacere. E infine c’è Bruce Willis, che si concede qualche dovuta battutaccia autoreferenziale pseudo-autoironica ma che soprattutto è costretto dalla sceneggiatura a recitare la parte del vecchio rincoglionito geloso della figlia 25enne che “forti i Creedence Clearwater Revival perché quella sì che era musica mica quella di oggi” e che “io di tutte queste diavolerie moderne non ci capisco niente”. Tristezza.

John McClane è tornato: sempre al posto sbagliato al momento sbagliato (come recitava Die Hard 2). L’autore del capostipite Trappola di Cristallo (John McTiernan) e la star Bruce Willis, produttori, puntano su una nuova leva del cinema muscolare, quel Len Wiseman che, con i due capitoli della serie horror Underworld, ha riscritto il genere vampiresco gettandolo nell’hi-tech d’azione. La trama principale è votata al mero dinamismo, con l’eroe di scorta alla Solo 2 Ore, ma nei suoi rivoli si basa anche sull’articolo di John Carlin ‘A Farewell to arms’, richiama il primo capitolo della saga nelle discussioni in stile Giù le Mani da Mia Figlia (o nella scena dell’ascensore) e punta sul rodato meccanismo di contrasto veterano/pivello (vince sempre il primo, simbolo dei veri uomini del Far West): uno scontro generazionale fra una sveglia analogica nell’era digitale demonizzata (Spider-Man compreso), e il giovane nerd che odia i CCR ed i media istituzionali, non sa gestire la violenza, finirà per ammirare il coraggio del salvatore e potrà riscattarsi con la perizia informatica. Dal terzo capitolo, invece, torna l’impostazione “realistica”, da “catastrofico” per le strade di una New York in piena sindrome 11 settembre, sotto attacco telematico e mass-mediologico (il video di propaganda), in una escalation dove si denuncia la vulnerabilità di un paese in balia de sistemi computerizzati e i cui addetti governativi non sanno gestire la situazione (altro rimando all’attacco di Al Qaeda). Wiseman, di suo, mette l’amata fotografia in blu, una tensione senza respiro e scene iperboliche a volte gustose (la furibonda sparatoria in apertura, la scena nel tunnel, l’esplosione della centrale con il gas), altre eccedenti (gli elicotteri o velivoli abbattuti con idrante ed autovetture: ma sono niente in confronto alla scena finale con l’F24), sempre salvate dall’ironia (uno spasso McClane contro il kung fu di Maggie Q). A fare la differenza, però, è sempre il personaggio di Bruce Willis, cool e di gomma, che non ha mai paura, non molla mai, stempera con il sorrisetto e prende per le palle il cattivo borioso (Timothy Olyphant), battuto da un inatteso proiettile condiviso.