TRAMA
Zatoichi, massaggiatore vagabondo e cieco, sfodera i suoi virtuosismi con la spada per aiutare due geishe in cerca di vendetta e una cittadina sotto il giogo di una banda.
RECENSIONI
Daredevil e Furia Cieca dei samurai, Zatoichi è un popolare antieroe (qui poco "anti" e molto sfuggente) del Sol Levante, impersonato da Katsu Shintaro in una lunga serie di pellicole a partire dagli anni sessanta. Kitano lo fa suo nel prezioso studio cromatico (gialli diurni sporcati di sangue digitale, blu-kitano di notte) e linguistico (straniamenti, miscela di generi, anomalo commento musicale), nel look ossigenato e nei tic della sua maschera (spietato in combattimento, super-eroico con dadi e legna, silente e amabilmente impacciato nelle relazioni interpersonali). Fra l’enunciazione di una tragedia (il toccante dolore delle geishe assassine), la destrutturazione drammaturgica (poco audace: solo qualche flashback), il racconto archetipico (o banale?) e divertenti sipari comico/demenziali (un plauso al cabarettistico Guadalcanal Taka), la violenza, al solito, esplode in tutta la sua brutalità, come coreografia di uno zenit dell’assurdo, più compiaciuta/compiacente, però, che nel circolo vizioso di nonsenso di un Sonatine. Kitano dà sempre il meglio di sé nelle dissonanze e negli sprazzi lirici: l’anima musical degli zappatori e dei carpentieri che esplode in un trascinante, vivido tip tap da "esodo" del teatro classico; la bisbigliata comparazione con il "ronin", avversario contingente che richiama l’eroe di Hana-Bi; la sovrapposizione temporale (fino al morphing) dei due bimbi/adulti imprigionati nella ritorsione; le pause attonite sul paesaggio; i gesti apparentemente insignificanti (Zatoichi e lo spaventapasseri). Giunge il previsto duello fra samurai che, fra ralenti e bizzarri sogni infranti, depone le armi nel gesto estremo della moglie malata. Anche Zatoichi ha la sua vendetta da compiere, smaschera ma rivela solo occhi da albino, accecando la voglia di retroscena dello spettatore, che inciampa insieme al protagonista nell’inquadratura finale (prima del tip-tap), perché con gli occhi aperti non si vede niente e da ciechi si (sub)odora tutto. Felice enigma.
Lame lunari nel buio, gesti fulminei, zampilli rococò, arti bizzarramente decomposti: Kitano colloca una figura mitica della cultura giapponese (protagonista di una serie di film protrattasi per decenni) in una trama “di samurai” tanto schematica e prevedibile da essere appena un lussuoso e ironico manichino su cui allestire una messinscena dai toni raggelati e sulfurei, millimetrica fino alla mania (l’incessante giostra dei sinuosi movimenti di macchina, interrotta da una sola inquadratura realizzata con un’agitata mdp a mano, a sottolineare l’imminenza dello scontro decisivo), esteticamente divina, spinta ben oltre la calligrafia più sfrenata. Un magnifico esercizio di stile, un affresco dai toni cupi (rischiarati dai bagliori del fuoco e dai rubini del sangue), attraversato da ossessioni geometriche (la definizione spaziale pare griffata Mondrian) e musicali (le coreografie dei combattimenti, delle danze e delle partite a dadi, punteggiate dagli interventi di un surreale coro muto e destinate a sfociare nel frenetico balletto finale), un giocattolo di genere in cui il talento autoriale si limita ad aggiungere abbellimenti (spesso irresistibili, talvolta solo gradevoli) a uno spartito di medio/bassa routine. Ma l’apparenza inganna, anche quando, come in questo caso, incanta. Pur velato da un sontuoso mantello, ZATÔICHI si rivela il figlio naturale di DOLLS sia nella struttura (tre storie – il massaggiatore, i fratelli, la guardia del corpo – dapprima separate, poi lentamente e inesorabilmente avvicinate fino alla fusione in un’unica rete di passioni soffocate, esasperate dal passaggio del tempo, troncate dalla morte) sia nell’aspetto [i colori disumanati, morbidi e lucenti anche nel buio della notte eterna, gli ingranaggi teatrali – il contrappunto dei diversi piani dell’immagine (l’arrivo del massaggiatore in città), i corridoi di quinte laterali consacrati ad azioni parallele (la “prova della spada”) –, i feticci dis/simula(n)ti (gli strumenti a doppio taglio, il personaggio en travesti)]. La monocorde esattezza dei duelli è negata, con movenze felpate, dai tratti degenera(n)ti (neanche troppo) nascosti nelle pieghe della squisita stilizzazione: gli opposti coincidono, gli stilemi si ribaltano (i fratelli, androgini degni di Shakespeare), la percezione è costantemente ridefinita [l’ambigua natura del vendicatore e quella, allo stesso modo enigmatica, degli ambienti in cui si muove (la casa della vedova, inquadrata dall’alto, assomiglia al ciglio di una strada fangosa, fino all’apparizione di un ombrello colorato), i flashback imprevisti, iterati, assenti]. Al t(ri)onfo dell’azione automatica (la pistola…) si oppongono la vittoria del dubbio (come in un altro film “di genere” alieno e malato, BROTHER) e l’impero dei sensi [non solo della vista (le soffuse dissonanze della multipla colonna sonora)], prima di un finale beffardamente edipico e reticente, superbo inchino prima dei titoli di coda.
Fin dal 1997, quando vinse il Leone d'Oro a Venezia con "Hana-Bi", Takeshi Kitano gode dell'adorazione di un pubblico di fedelissimi che va in visibilio qualunque cosa faccia: dalla trasferta americana ("Brother") alla commedia ("L'estate di Kikujiro"), dalla poesia ("Dolls") alla riscoperta di tutta la sua filmografia. Ora tocca al genere "jidai geki", che sta per "storico in costume". L'azione e' infatti ambientata nel XIX secolo e ripercorre le gesta di un cieco, ora vagabondo, ora massaggiatore, abile e invincibile spadaccino. Il personaggio si chiama Zatoichi ed e' molto famoso nella cultura popolare giapponese, tanto che gli hanno dedicato gia' film e serie televisive. Ma a Kitano non interessa la verita' storica o la fedele riproposizione di un mito, bensi' una personale reinvenzione secondo i propri canoni estetici. Eccolo quindi biondo platino, con il solito carisma di una faccia che non si dimentica, impegnato in continui duelli e battaglie, non cedendo ai cliche' del genere ma contaminandoli con il comico, il grottesco, addirittura il musical. I fan piu' devoti impazziranno, gli altri si annoieranno a morte assistendo impassibili agli infiniti combattimenti (pare tecnicamente diversi rispetto a quelli visti nei film di samurai), ai continui regolamenti di conti, ai giochi d'azzardo, alle esibizioni ispirate al teatro Kabuki, a una comicita' zoppicante lontanissima dai ritmi a cui siamo abituati. Unica consolazione, i dettagli splatter (il sangue degli smembramenti e' stato rielaborato al computer), le scelte musicali (originale contrappunto all'azione) e lo strepitoso e divertente numero musicale che chiude il lungometraggio, davvero entusiasmante.
Ma bastano dieci minuti per rivalutare un intero film?
Il vedere con gli occhi viene dopo il vedere con la mente e con il cuore.Yagyu Munemori, Samurai
Non è certo un grande Kitano quello di Zatoichi, almeno non grande come in Dolls, Hana-Bi, Il silenzio sul mare e Sonatine, e tuttavia è un Kitano enormemente consapevole delle sue doti di metteur en scène se quella che ci consegna è un’opera fortemente costruita sul senso della messa in scena. Zatoichi tradisce tutta la pretestualità del desiderio, più volte espresso dall’autore, di fare un film di samurai, di esibire figure morenti, duellanti, danzanti nell’unico spazio della rappresentazione filmica come se tale teatralizzazione fosse davvero questo sublime luogo geometrico nel palcoscenico della vita. In effetti il legame tra il chambara(l’omologo del cappa e spada occidentale e del wu xia-pian hongkonghese) e la rappresentazione è strettissimo visto che il termine chambara è la derivazione linguistica volgare per indicare il kengeki (letteralmente: teatro della spada), sottogenere teatrale giapponese incentrato sui duelli con la spada.
La libertà espressiva, tratto che insieme a Suzuki, Imamura e gli ultimi, grandissimi, Kurosawa Kyoshi e Miike Takashi, distingue fortemente Kitano da certa classicità del cinema nipponico, gli consente, attraverso una marcata quanto voluta scorrettezza filologica, di produrre effetti di senso fondamentalmente ludici come finalità che pertiene al rappresentato.
La sinossi storica (si vola pindaricamente dal periodo degli “stati combattenti”, il periodo degli Ashikaga, quello in cui i samurai svolsero un ruolo assolutamente di prim’ordine nell’unificazione del Giappone, al periodo Togukawa, periodo lunghissimo dal 1616 al 1868 in cui ci fu un grande accentramento del potere shogunale e la casta dei chonin, i mercanti e gli artigiani, soppiantò quella dei samurai, sempre più burocratizzati, fino agli albori dell’era Meiji, con la definitiva occidentalizzazione), con tutta la sua vaghezza di riferimenti, apre la strada ad un discorso che Kitano, come ripetiamo, intende fare sul piano estetico-artistico piuttosto che filologico attestandosi su due punti attorno ai quali far girare tutta l’intelaiatura narrativa: la figura del ronin (uomo – ombra) e il declino di un’epoca, quella dei samurai.
Attraverso il personaggio doppiamente mitico di Zatoichi, in quanto ronin (chi non ricorda l’episodio famosissimo della storia giapponese dei 47 ronin, portato anche più volte sullo schermo? – passaggio dalla storia al mito) e in quanto protagonista di un celebre eroe della televisione giapponese degli anni ’60 – ’70, Kitano mette in opera la sua strategia del gioco filmico divagando ludicamente sul rapporto eccedente tra cecità e visione: Kitano è cieco come il suo eroe ma nello stesso tempo è colui che vede più di tutti in quanto è il regista del film, ma il cineasta riesce ad essere ancora più “abissale” nel rendere il cieco Zatoichi dotato di una doppia veggenza. Egli è l’eroe che in combattimento vede più e meglio di tutti perché grazie alla vista della mente riesce a “vedere” e anticipare le mosse dell’avversario, inoltre è colui che riesce a smascherare il malvagio daimyo (signore) che soggioga il villaggio celandosi dietro le (doppie) mentite spoglie di un vecchio sguattero di locanda; ed è anche colui che possiede una vista “etica” più sviluppata degli altri poiché riesce a vedere le congiure, i soprusi, e tutte le iniquità morali prima degli altri. Zatoichi in sostanza incarna l’ideale del guerriero viandante, fedele solo a se stesso e al suo senso di giustizia sociale, sgominando malvagi e oppressori e mettendosi al servizio dei deboli. E’ l’eroe che misura il suo essere tanin, ovvero la sua condizione di alterità sullo sfondo di una società che sta rapidamente mutando i suoi costumi. Il suo è un genere di katana molto antico e andato quasi in disuso, denominato himogatana, tipico esempio di lama senza elsa che consentiva un’estrazione più agile (quello posseduto da Ishikawa Goemon, inseparabile compagno di Lupin III nell’omonima serie creata da Miyazaki, tanto per intendersi). Zatoichi è la perfetta sintesi dei due ideali del bushido, codificati poi dallo Hagakure: l’azione e il pensiero, esemplificati da due samurai coevi trai più noti: Musashi, rozzo nei modi, povero nelle origini (Zatoichi è un massaggiatore) ma efficace nei risultati e Takuan Soho, guerriero zen, maestro nello sgombrare la mente dai pensieri che la occludono durante i combattimenti (nel duello decisivo con il giovane e promettente Hattori, Zatoichi ha la meglio perché la sua mano, la sua mente e la sua spada formano un unicum, mentre invece Hattori, nella sua inesperienza, nonostante abbia attraversato il periodo del cosiddetto musha-shugyo, il pellegrinaggio in cui il guerriero apprende la severa disciplina del kenjutsu, l’arte della spada, e sia addirittura divenuto yojimbo, guardia del corpo, è preso fatalmente da mukyo, la follia allucinatoria in cui si perde costruendo mentalmente la mossa decisiva contro Zatoichi, soccombendo inevitabilmente). Il delirio dei flutti di sangue zampillanti realizzati in computer graphic non fanno altro che stemperare scenicamente la violenta bellezza coreografica delle immagini in quello che possiamo comunque considerare uno dei film di samurai più sublimemente cruenti della storia del cinema.
Zatoichi, come di è detto, segna anche il lento, graduale e inesorabile declino dell’epoca dei samurai. Le inquadrature che con la loro fissità quasi ieratica nella statica attesa del combattimento tendono a conferire un senso di solennità e prestigio alla casta dei samurai sono aggredite dai movimenti rapidi, spietati, implacabili di Zatoichi e dai suoi fendenti di spada che ne feriscono lo spazio sacrale destituendolo del suo valore semantico. E’ ciò che in qualche modo accade nell’ideale passaggio kurosawiano da I sette samurai a Ran: ad un contesto storico profondamente mutato corrisponde un differente senso della costruzione d’immagine, dall’unità geometricamente circolare al caos spaziale delle battaglie in campo aperto.
E proprio il riferimento all’ “imperatore” offre lo spunto a Kitano per concedersi(/ci) l’ultimo gioco: quello citazionistico del finale. Il danzare (degli occhi soprattutto) nelle sequenze finali di tip-tap richiamano ai musical occidentali di Berkeley e di Minnelli, simbolizzando una felice e magnifica compenetrazione di due orizzonti cinematografici. Inoltre si pone come grande omaggio alla scena finale de I sette samurai che si conclude parimenti con la danza da parte dei contadini che trionfano, è vero, ma quel danzare assume anche un valore apotropaico che scongiuri i pericoli a venire in quanto quella stessa danza segna un ritorno alla ciclicità in cui il samurai tornerà a fare il samurai e il contadino a dover difendere i suoi raccolti dalle scorribande dei banditi. Kitano invece intende cambiare di segno allo stato di cose secondo la visione di Kurosawa, infatti in quella straordinaria sequenza finale si affida al montaggio alternato in cui la danza è già assolutamente e incondizionatamente trionfale ancor prima che Zatoichi trovi il daimyo meschino e vessatore per ucciderlo; quella di Zatoichi è insomma una liberazione totale, assoluta, anche dal tempo sempreuguale del succedersi dei daimyo (o sedicenti tali) che vogliono abusare impunemente del loro potere nei piccoli villaggi. Il tip-tap, con il suo carattere giocoso e liberatorio, non ha nulla a che fare con i canti rurali del Giappone feudale.