TRAMA
A Brian, quando aveva otto anni, è accaduto qualcosa: i risultati sono un vuoto di memoria e atroci incubi. Cresciuto, il ragazzo intende scoprire la verità…
RECENSIONI
L’omonimo romanzo di Scott Heim serve ad Araki (per la prima volta nella sua carriera alle prese con un materiale narrativo partorito da altri) per allestire un duplice racconto di formazione truccato da giallo fantascientifico: Brian e Neil, narratori simmetrici e opposti, sono cavie di un esperimento sessuale che il regista non solo confina fuori campo (limitandosi a evocarlo tramite echi meccanici e immagini incorniciate da dissolvenze al nero) ma rifiuta di giudicare, non indietreggiando di fronte alle pulsioni dei personaggi (per quanto innocenti possano sembrare) e non concedendo sconti o vie di fuga, ispezionando con uguale imperturbabilità gli angeli e gli alieni coinvolti nel gioco a premi. L’Apocalisse (“stava per succedere qualcosa di terribile”) e i marziani sono presenze fisse per i film del regista, che in questo caso non recupera l’acida grazia di Nowhere e neppure (se non a tratti, vedi il minimale incontro consumato sotto il segno di Vermeer e le estrose toilette sfoggiate da Eric) la bizzarria di The Doom Generation. Dopo una prima parte strettamente preparatoria, in cui Araki sfoglia il catalogo del filone “ragazzi in crisi” (non manca la tentazione metacinematografica, repentinamente immersa nella neve), Mysterious Skin cresce e avvince/convince, delineando con inattesa profondità le analogie visitor-pedofilo, elaborando soluzioni visive di raggelata sobrietà (la visita notturna alla carcassa animale, lo stupro subito da Neil), in grado di rendere un quotidiano in cui ricordo e allucinazione sono indissolubilmente legati, approdando a una conclusione tenera e aspra, quieta e per nulla riconciliata, che scioglie ogni (im)possibile enigma circa la scena primaria (la figura del coach, modello perfetto misteriosamente svanito dopo una sola estate, resta comunque sufficientemente misteriosa) ed esplora la solitudine astrale del dolore riscoperto.
Ci sono molti modi per trattare un tema delicato come la pedofilia. L'argomento è quanto mai attuale e scottante e ha ispirato qualche film di denuncia (anche l'italiano Territori d'ombra) ma soprattutto fior di thriller, diventando un movente perfetto per la furia vendicativa del maniaco di turno. Gregg Araki, definito un regista pop con lo stile acido, (Doom Generation, Ecstasy Generation) sceglie ancora una volta un taglio forte e personale. Il suo talento visionario alterna voli surreali a virate oniriche ma è molto ancorato alla realtà e alla verità dei dettagli, curati con morbosa precisione. Il suo è un cinema vitale e sanguigno, schietto e diretto, senza falsi pudori, fatto di pugni nello stomaco, stoccate al buon gusto e sfida ai tabù, ma capace anche di improvvisi slanci poetici. Nel mettere in scena un trauma con conseguenze devastanti come l'abuso sessuale, in grado di condizionare una vita rubando possibili alternative, dimostra che con sensibilità e ironia si può affrontare qualsiasi argomento. Alcuni eccessi possono risultare gratuiti, e probabilmente lo sono, ma questo è il mondo in cui Araki ha deciso di far muovere i suoi personaggi (la derivazione è l'omonimo romanzo di Scott Helm) e non cerca filtri accomodanti per rendere digeribile ciò che non lo è. Bravissimi i protagonisti, sia i bambini che i ragazzi. In una piccola parte anche Elisabeth Shue, che conferma di prediligere percorsi alternativi alla strada in discesa, ma risaputa, dei blockbuster.
Che raro e scomodo esempio di volitiva controcultura gay ci offre Gregg Araki! Raro perché, se si esclude il caso di Elephant – il quale gli resta superiore per cifra stilistica – ci sembra di dover tornare a Jarman, all’Almodovar degli inizi e a Fassbinder per trovare dispiegata in modo così aperto, nel cinema di larga diffusione, una visione omosessuale del mondo anziché una più o meno riuscita illustrazione della realtà omosessuale secondo i cliché della pena, dell’amore, della coppia, della sapida ironia. Scomodo non solo perché affronta di petto e senza moralismi un tema difficile come la pedofilia, ma anche perché dice alcune cose non propriamente gradite sul desiderio sessuale, a cominciare da quello dei bambini, e sulla sua ambigua natura. Non gradite, ci pare, anche fra i gay, che tendono oggi a diffondere di sé – della propria identità, del proprio immaginario – una percezione fungibile a quella che l’elaborazione simbolica dominante dà dell’eterosessualità. A questo tentativo di accreditarsi come persone che hanno uguali valori per vedersi riconosciuto infine un uguale valore, Araki resiste, anche se il modello sociale è ormai pronto e probabilmente vincente [1]. Innanzitutto, il regista evita il rischio del moralismo anche perché ignora deliberatamente la prospettiva del gruppo (famiglia, educatori, psicologi, media…) che circonda i due ragazzi, eterna pietra d’inciampo di autori benintenzionati che si fanno pedagoghi; viene del pari escluso il punto di vista dell’adulto violatore, senza di che il film avrebbe rischiato di assumere una tinta clinica o criminologica o psicopatologica – visione nella quale ci sembra tuttora insuperata, nella variante “psicopatologia famigliare”, la spietatezza di Happiness. Araki sceglie la strada più difficile e diretta, la più sinceramente interessata ai giovanissimi protagonisti in quanto individui e non in quanto vittime; dunque la più azzardata tanto sul piano estetico quanto su quello teorico: ci racconta come uno dei due bambini fosse sessualmente attratto dal proprio coach, e poi il diverso modo in cui due ragazzini reagiscono a ciò che hanno vissuto, lo introiettano o lo rimuovono, lo elaborano sublimandolo in avventura fantastica e misteriosa o addensando in esso la massima e irripetibile felicità: anche nell’abuso può essere infatti innestato un trasporto appassionato, quel solo che ha fatto sentire Neil l’essere più importante al mondo. Ma non per questo Araki cade nell’apologia: non c’è nel suo sguardo alcuna concessione per l’adulto che violò i ragazzini affidatigli. La simpatia e la partecipazione emotiva, il lirismo o l’intensità drammatica di certi momenti, nell’orgogliosa accettazione come nella cancellazione e poi nella ricerca di una parte di sé, sono tutti dalla parte dei due bambini/adolescenti.
Avendo deciso di attenersi rigorosamente all’esperienza di Neil e Brian, e solo ad essa, il regista aveva di fronte altri rischi, sul piano dello stile: da un lato l’arzigogolo intellettuale, dall’altro la stucchevolezza patinata. Entrambi sono evitati, in favore di una linearità narrativa e di una trasparenza drammaturgica che a un primo sguardo possono apparire rinunciatarie; e se i palati fini rimprovereranno al film l’assenza di scarti stilistici, ci si deve chiedere come mai tale opzione provenga da un autore finora acido nel ritmo e percussivo nell’immagine, e se una sterzata così netta nella scelta di un tono medio, apparentemente dimesso, non derivi dal rispetto per la propria materia. Non volendo dissacrare ma conoscere, Araki per questa volta ricorre a figurazioni semplici ma eleganti, quasi astratte, talvolta solenni, permettendo così che da esse emergano personaggi veri e vere emozioni, anziché i frizzi e gli sberleffi cui era affezionato. Ed è un merito non da poco, aver trattato con limpidezza intatta e militante al tempo stesso un argomento tanto spinoso e in grado di suscitare incontrollate reazioni emotive; con l’ulteriore risultato di aver fortemente coordinato le forme e la stessa narrazione all’immaginario, all’attrazione, al turbamento, all’inesausta sete d’affetto che raccontano. L’arte omosessuale, da Michelangelo a Wilde, da Gide a Bacon, ci rivela che l’unica verità è quella dei corpi, che la trascendenza è un inganno. Una volta spezzato il collegamento col passato e col futuro, col valore e col progetto, non può che affermarsi un desiderio senza gerarchie morali e senza destino e, con esso, l’esaltazione in una dimensione assoluta di ciò che normalmente viene ridotto alle categorie del frammentario e dell’episodico, del meramente fisico. Così inteso, il desiderio non può mai conoscere autentico appagamento, ma solo palliativi e perpetua ricerca; e qui sarebbe la radice del suo nomadismo, non nell’ansia riproduttiva: il fine del desiderio è interno alla sua stessa struttura, e l’essere desiderante è condannato perciò alla messa in abisso del proprio oggetto, che sarà continuamente cangiante e sfuggente nonostante si cerchi di identificarlo con un motore immobile[2]: per Neil, l’istruttore di baseball che lo aveva sedotto, del quale ricercherà i gesti nei propri partner occasionali. Anche il collegamento tradizionalmente individuato dalla psicanalisi fra Eros e Thanatos ne viene rimodellato; e nel film questo emerge chiaramente, attraverso l’insistita associazione dell’erotismo alla cannibalizzazione di se stesso e dell’altro: divorare o farsi divorare, ingoiare il corpo dell’altro o farsene fagocitare attraverso la bocca o l’ano – le due aperture erotiche per eccellenza in quanto necessariamente scollegate dalla riproduzione, ed entrambe associate all’idea di distruzione – è il modo per tentare di assicurarsi l’annullamento di sé nell’altro o dell’altro in sé [3]. L’emanazione narrativa di questo nucleo tematico è costituita in particolare dai numerosi incontri erotici di Neil, nella cui rappresentazione una totale prevalenza è data al contatto: dal lieve tocco alla violenza brutale. Qui, il regista si astiene dalla tentazione scopofila del soft per ricercare un altro effetto di senso, ben più decisivo alla sua poetica: lo schermo viene rapidamente attraversato da quella particolare nudità erotica, neutra rispetto alla dinamica voyeuristica dello spettatore, che volge il piacere del guardare in angoscia e provoca la paralisi del corpo spettatore nell’improvvisa consapevolezza che non c’è frontiera più invalicabile di quella dello guardo, e non c’è spazio più tragico di quello tra due corpi; quella distanza che solo l’illusionismo del sesso può valere a frangere, per un momento.
Anche nell’intensa sequenza finale l’autore tiene fede al proprio impegno espressivo: egli sa che così il canto come il grido sarebbero, a questo punto, rumorose ma insignificanti interiezioni, e conserva una severa disciplina linguistica che gli consente di padroneggiare e non svilire l’emozione. Prima l’ostilità – e la complicità artefatta, la gelosia, l’indifferenza – poi la solidarietà. Reso possibile da una terribile rivelazione, si verifica un movimento inaspettato: il più fragile dei due offre la propria ferita – reale e metaforica – all’altro che ne fu irresponsabile complice; e questi l’accetta, come accetta il fatto di avere “un buco nero senza fondo al posto del cuore”, e il fatto che ogni porta è sbarrata alla felicità. E l’accetta in un abbraccio di ispida e fraterna tenerezza, indocile controcanto all’aridità del mondo.
[1] Una visualizzazione cinematografica di tale modello, rassicurante e di facile commercio, è la coppia di sposi che, nel film American beauty, si contrappone con il suo sorriso e la sua serenità alle famiglie eterosessuali divorate dalle ambizioni frustrate, dai rancori, dai desideri repressi, dai silenzi.
[2] A proposito delle incidenze possibili, o del possibile parallelismo, fra sentimenti e sensi, Gide indicava nel loro connubio “una delle ripugnanze cardinali” della vita.
[3] Naturalmente, questo tentativo è chimerico, destinato al fallimento; dovrà allora essere ripetuto ancora, e ancora, oppure dovrà lasciare il posto a una scelta estrema, cioè alla realizzazione concreta, e non più simbolica, del proprio obiettivo: dare o farsi dare la morte. “Dobbiamo subordinare il nostro piacere a un gesto unico” dice uno dei potenti di Salò.