Commedia

MY NAME IS TANINO

Titolo OriginaleMy Name is Tanino
NazioneItalia
Anno Produzione2002
Genere
Durata100'
Montaggio
Costumi

TRAMA

Tanino vive a Castelluzzo ma, complice un amore estivo, decide di raggiungere gli Stati Uniti per conoscere il suo mito: il regista indipendente Chinawsky. Il viaggio riserverà sorprese, equivoci ed imprevisti.

RECENSIONI

Tanino vive nel piccolo paese siciliano di Castelluzzo, ma ha grandi ambizioni. Sogna la regia cinematografica e approfitta di un flirt estivo con una ragazza americana per compiere il grande passo e sbarcare negli Stati Uniti alla ricerca del suo mito, il famoso regista indipendente (in realtà immaginario) Chinawsky. Caratterialmente Tanino è una specie di angelo, uno di quei personaggi puri costruiti con abilità per coniugare in modo credibile ingenuità, spontaneità, fervore giovanile e soprattutto una grande carica di contagiosa simpatia. Nella prima parte il taglio scelto da Virzì, per questa sorta di racconto di formazione, conquista proprio per la verve dei dialoghi e del giovane protagonista, il debuttante Corrado Fortuna. Anche l'arrivo negli Stati Uniti diverte per il modo di evidenziare e sdrammatizzare i luoghi comuni americani. Poi, però, le coincidenze si infittiscono, come anche i colpi di fortuna e sfortuna da cui Tanino esce sempre con un candore che finisce con lo stancare. È proprio l'ingenuità di Tanino a diventare progressivamente sempre più stucchevole, anche se si tenta di giustificarla con i pensieri fuori campo dello stesso protagonista. O semplicemente diventa ripetitivo il modello narrativo con cui Tanino capita casualmente tra macchiette caricaturali, per poi uscirne indenne. L'America viene un po' smitizzata e un po' derisa, cogliendo contraddizioni e sfumature grottesche che non raggiungono, ma forse non ricercano nemmeno, alcun approfondimento. Dopo la leggerezza comunicativa di "Ovosodo" e il riuscito ritratto di provincia di "Baci e abbracci", ci si aspettava da Paolo Virzì qualche cosa di più di una commedia simpatica ma un po' superficiale. Probabilmente sul risultato, tutt'altro che disprezzabile ma appesantito da una seconda parte che gira un po' su se stessa, hanno inciso i problemi produttivi con il Gruppo Cecchi Gori, in pieno deficit finanziario proprio nel bel mezzo della lavorazione del film.

Il “grande film malato” di Paolo Virzì? Forse... vessato dalle note traversie produttive, My name is Tanino è un film sbilanciato e diseguale, sospeso tra il troppo e troppo poco ambizioso, ma che comunque rimane un oggetto prezioso nel panorama cinematografico nostrano. Leggibile come il “gemello diverso” di Ovosodo, a tutt’oggi il capolavoro di Virzì, è un romanzo di formazione meno lineare e intelligibile di quello che narrava le tragicomiche peripezie di Piero Mansani e non ne ricrea il perfetto ma delicatissimo equilibrio. Il cinema di Virzì (e del suo co-sceneggiatore Francesco Bruni) appare infatti, da sempre, fondato sulla rischiosa prassi dei confini tra popolare e populista, generale e particolare, didascalico e problematico. Vicende e personaggi del cinema del livornese sembrano costantemente sul punto di sconfinare nello stereotipo e nella macchietta, ma ad una visione attenta svicolano dalla facile catalogazione per dotarsi di una dignità/nobiltà socio-politico-culturale accessibile a tutti e che davvero, in questa “universalità” del messaggio, ripropone e si riappropria dei grandi meriti dalla commedia all’italiana di Risi, Scola o Monicelli. My name is Tanino non farebbe eccezione se non mostrasse alcune “falle” che lasciano quasi perplessi: se già, infatti, la figura del protagonista appare decisamente troppo ingenua e “pura” per risultare completamente credibile, ma deve fare un percorso, e una sceneggiatura è pur sempre una... sceneggiatura, alcune sequenze sembrano decisamente poco riuscite (si veda quella dell’esame universitario, forzata e inverosimile) e ci sono personaggi, come l’amico no-global o gli emigranti, che tendono troppo verso lo stereotipizzazione banalizzante, pur ammettendone il carattere volutamente iperbolico e caricaturale. Non convince appieno neanche la costruzione drammatica del film, che col passare dei minuti sembra sfilacciarsi e perdere ritmo, coesione e “senso”, fino al finale “meta” che sa un po’ di autoassolutorio (la chiosa del protagonista sul dubbio significato da attribuire alle proprie vicissitudini, e dunque al film stesso). Forte è la tentazione di imputare (gran) parte di questi demeriti all’odissea realizzativa che Virzì e soci hanno dovuto vivere, ma in effetti appare palpabile la scarsa omogeneità della pellicola, l’altalenante disparità di mezzi coi quali è girata e la trascuratezza dell’ultima parte che appare quantomeno tirata via se non addirittura mutilata (dobbiamo aspettarci un “director’s cut” in DVD?). Nonostante tutto, My name is Tanino si candida come il film “girato meglio” da Paolo Virzì, quello dove il regista mostra sprazzi di Stile insolito per un film italiano, ben sorretto da una bella (non nel senso deteriore del termine) fotografia, con un uso interessante della luce e dei colori specie nelle sequenze oniriche (per le quali Virzì aveva già mostrato buon gusto e talento in Baci e abbracci) e nei flashback del protagonista. Molto bella, infine, anche la prima parte americana, quella che ritrae la famiglia della ragazza popolata di figure ambigue, affascinanti e misteriose (la madre premurosa) o disturbanti ed emblematiche (il padre, la cui rabbia è capace di generare vera inquietudine) che sanno restituire con efficacia una delle infinite istantanee che si possono scattare dell’America e del suo famigerato, contraddittorio Sogno. Un film comunque da ripensare e meditare, che sembra in qualche modo “nato” e strutturato per essere rivalutato col tempo tanto è disomogeneo, discontinuo e per molti versi sfuggente come ogni “grande film malato” che si rispetti.