TRAMA
Gangster atipico In-gu: anziché pensare alla carriera criminale, si preoccupa soltanto di portare soldi a casa per assicurare un tenore di vita decoroso alla famiglia. La moglie, My-riung, e la figlia, Hee-soon, però ne hanno abbastanza del suo lavoro sporco e violento, non perdendo occasione di farglielo pesare. Stretto tra l’insofferenza delle due e l’ostilità del fratello minore del suo boss, In-gu deve fronteggiare una situazione assai delicata.
RECENSIONI
Eleganza visiva, facce giuste al posto giusto e un interprete gigantesco: questa la ricetta vincente di “The Show Must Go On”, secondo lungometraggio di Han Jae-rim. Più che un noir dalle venature sociologiche, come dichiarato in modo piuttosto fuorviante dal regista nel pressbook, un vero e proprio one man show, un monumento eretto a Song Kang-ho, mattatore del cinema coreano, volto sornione e canagliesco che abbiamo già apprezzato in alcune tra le gemme più stimate di una cinematografia che non smette di stupirci (“The Foul King”, “JSA” e “The Host”, solo per citare alcuni titoli). In questo gangster movie impreziosito da elementi comedy e action, Song può sciorinare l’intera gamma espressiva a sua disposizione, sfoderando un ventaglio interpretativo semplicemente eccezionale: si va dalla recitazione sonnacchiosa dell’incipit alla furibonda fisicità dei numerosi corpo a corpo, passando per modulazioni di sferzante sarcasmo o sofferta passività. Han Jae-rin lascia che il film si sviluppi attorno al talento del protagonista, facendo della vicenda di In-gu, malavitoso tutto gang e famiglia, un mero pretesto per inanellare pezzi di bravura (attoriale) su pezzi di bravura (registica). Inutile cercare occulti sottotesti metaforici o riflessioni critiche in filigrana: “The Show Must Go On” è pellicola di eccellente fattura formale e cristalline qualità tecniche (non a caso si è aggiudicata il premio come miglior film alla 28ª edizione dei Blue Dragon Awards), palcoscenico di lusso per l’esibizione dell’abilità di Song Kang-ho (anch’egli premiato come miglior attore nella stessa occasione) e per la perizia stilistica di Han. L’ennesima variazione sul tema del gangster in crisi, pur sviluppata con apprezzabile disinvoltura nella prima parte, nella seconda finisce difatti per perdere mordente, complici i troppi finali che appesantiscono la narrazione e intralciano la progressione drammatica, alzando intempestivamente il voltaggio emotivo. Restano gli smaglianti pregi estetici, tutt’altro che irrilevanti. Se della sensazionale performance di Song si è già detto, corre l’obbligo di segnalare la spassosissima prova di Oh Dal-su nei panni di Hyun-su (amico fraterno di In-gu militante nella gang rivale dei
Giaguari) e la declinazione ortodossa dello stereotipo del villain da parte di Yun Je-mun (Sang-Jin, fratello minore del boss dei Cani). Ma è soprattutto il taglio visivo esibito dal film a reclamare attenzione: mutuando da Michael Mann la tendenza a squarciare la linearità dell’azione e a procedere per accelerazioni improvvise, Han sottrae raffiche di fotogrammi al flusso della continuity, tratteggiando un montaggio nervoso e sincopato, in grado di rendere plausibili e avvincenti situazioni ad alto rischio d’improbabilità (una per tutte: il rapimento di Sang-jin in mezzo ai suoi scagnozzi fuori dalla clinica). Lezione manniana assimilata nella sostanza, come dimostrano i primi piani di vibrazione umanistica che scandiscono alcuni dialoghi tra In-gu e la moglie My-riung (Park Ji-young). Due le sequenze memorabili: l’esilarante pranzo con In-gu e Hyun-su che si spruzzano acqua a vicenda e l’aggressione a In-gu in pieno centro, con tanto di rocambolesca evoluzione automobilistica. Risate e coltellate.
