TRAMA
ppena arrivato a Pusan, il piccolo In-ho vede una bambina di cui si innamora immediatamente: è la dolce Mi-ju, che il destino si diverte ad allontanare da lui. Alcuni anni più tardi la incontra inaspettatamente, ma per difenderne l’onore finisce in prigione, determinando una seconda separazione. Uscito dal carcere, viene ingaggiato da un potente boss come guardia del corpo e Mi-ju, beffardamente, si rivela essere la preferita del capo…
RECENSIONI
Giunto al suo settimo film, Kwak Kyung-taek, autore dell’epocale “Friend” (il “film dei record” che nel 2001 superò gli otto milioni di spettatori e concentrò l’attenzione del mercato internazionale sul cinema coreano), si prende una vacanza dal cinema violento e sanguigno che lo ha reso celebre e azzarda uno struggente melodramma ad altissimo voltaggio emotivo. Allontanandosi - almeno in apparenza - dalle vicende rabbiose e aggressive che hanno contraddistinto la sua poetica, il cineasta di Pusan tratteggia la storia d’amore tra In-ho (il prestante Joo Jin-mo) e Mi-ju (la delicata Park Shi-yuhn) rispettando scrupolosamente la scansione tematica del mélo: il fatale coup de foudre (per In-ho vedere Mi-ju e amarla fa tutt’uno), l’ironia della sorte (la contrarietà degli eventi sembra beffarsi dei sentimenti dei due innamorati) e gli ostacoli familiari che intralciano il coronamento dell’amore (per un malinteso senso della protezione, la madre di In-ho prega Mi-ju di lasciar perdere il figlio). Una storia d’amore impossibile con tutti i crismi del caso, insomma. Ma, come accennato, è una digressione soltanto apparente: di fatto Kwak non rinnega il suo cinema tumultuoso e frontale, convoglia semplicemente su binari sentimentali l’impetuosità cinetica dei film precedenti. In “A Love”, il regista di “Friend” non rinuncia infatti ai tratti distintivi del suo cinema (oltre all’esuberanza dinamica, anche la propensione a intrecciare storia e Storia per ritrarre la deriva degradante di un’intera società), ma li piega in direzione sentimentale, iniettandovi sostanziose dosi di determinismo. Se nella prima parte del film In-ho è fermamente convinto di essere il solo responsabile del proprio destino, nella seconda parte, sotto i colpi delle circostanze, questa convinzione si incrina fino a crollare del tutto in una singhiozzante ammissione di impotenza: è il contesto a condizionare esistenze e pensiero degli uomini, come la sentenza
finale del boss Yoo (un Joo Hyeon “marlonbrandesco”) illustra cinicamente (“Le donne solo sono una fase”). Per i potenti c’è sempre una via d’uscita, anche mentale. È un Kwak Kyung-taek al cento per cento quello di “A Love” e il côté visivo lo conferma puntualmente: malgrado la rigorosa impronta melodrammatica, le sequenze di azione e combattimento con armi da taglio, filmate con la travolgente irruenza cui Kwak ci ha abituati, non scarseggiano affatto e l’uso calibrato del ralenti non “coreografizza” la violenza, ma ne amplifica la forza d’urto, la durezza, la tangibilità. Anche l’amore in fondo è una lotta e allora il regista di Pusan monta “agonisticamente” la sequenza in cui In-ho e Mi-ju, finalmente, si dichiarano: sguardi dardeggianti, avvicinamenti improvvisi, strette mozzafiato. Bacio e dissolvenza in nero: se non è mélo questo. Assai pregevole il lavoro sulla luce cruda di Pusan, sui colori squillanti e sulle sfocature del direttore della fotografia Ki Sae-hoon e finale letteralmente indimenticabile: un sospesissimo freeze frame dalla durata record (oltre un minuto e mezzo). In quattro settimane di programmazione, “A Love” ha staccato due milioni di biglietti: risultato modesto se paragonato allo strepitoso successo di “Friend”, ma che lo colloca comunque al nono posto dei “Best Selling Korean Movie of 2007” (dati da http://www.koreanfilm.org/).
