TRAMA
Quattro individui (Eun-suk, una donna profondamente traumatizzata da una violenza sessuale; Yu-su, un ex detenuto appena uscito dal carcere; Yeong-cheol, un pescatore intenzionato a riscuotere un credito e Jun-gu, il debitore di Yeong-cheol che trascorre giornate intere a giocare a poker) incrociano i loro destini nella città di Daegu, in un torrido giorno d’estate.
RECENSIONI
Attenzione: “A Shark” è senza ombra di dubbio il film a rischio di questa edizione del festival. Sconclusionato, pesantemente autoriale, programmaticamente antispettacolare, il lungometraggio di esordio di Kim Dong-hyun (già aiuto regista del maestro Bae Yong-kyun) racconta lo spaesamento esistenziale di quattro reietti per le strade di Daegu (la quarta città della Corea in ordine di importanza dopo Seoul, Pusan e Incheon). Il caldo soffocante, lo squallore urbano e le miserie di un tessuto sociale degradato dominano questo dramma corale in cui i protagonisti si trascinano stancamente da un lato all’altro della città senza concludere praticamente nulla, se non incrementare la quantità media di sudore prodotta dal centro abitato. L’intreccio è a dir poco contorto: dopo essere stata aggredita e violentata da un manipolo di teppisti, Eun-suk scappa di casa e, in totale confusione mentale, finisce in un parco dove passa le sue giornate a fissare il sole cocente e aspettare la pioggia. Qui si imbatte in Yu-su, ex detenuto recalcitrante all’idea di tornare agli affetti familiari, e in Yeong-cheol, pescatore bamboccione arrivato in città per riscuotere un credito da un amico, Jun-gu, al quale ha portato, come prova tangibile di un’affermazione telefonica, un piccolo squalo bianco pescato il giorno prima. Caso vuole che la sciroccata Eun-suk scambi il cattivo odore proveniente dalla borsa in cui è custodito il pescecane per l’odore del figlioletto (sì, perché la donna aveva partorito un bimbo morto che, iniziando a imputridire, le era stato coattamente sottratto e sepolto). Convinta che nella borsa ci sia il figlio perduto, Eun-suk inizia pertanto a seguire e tartassare Yeong-cheon e Yu-su affinché le restituiscano il bambino, costringendoli a fuggire allarmati per le vie di Daegu. Nel frattempo Jun-gu, il debitore insolvente, gioca spensieratamente a poker, finendo per perdere i soldi che deve a Yeong-cheon. Poi arriva la pioggia e rimette a posto ogni cosa (o forse no ma non importa). Con un intreccio del genere, non è chi non veda, il comico involontario è costantemente in agguato e a volte sembra addirittura impossessarsi del film (anche se è difficile stabilire quanto l’effetto sia involontario o quanto sornionamente calcolato). Assurdità varie e oggetti ad altissimo potenziale simbolico (lo squalo su tutti) rendono lo sviluppo del racconto ancora più difficoltoso. Tuttavia questa esasperata/esasperante artificiosità di situazioni è padroneggiata da una messa in scena di scabra essenzialità e disadorna raffinatezza: pur condizionato dalla basicità del medium digitale, Kim Dong-hyun gioca sulle sottrazioni e sulle ellissi adottando uno stile visivo originalissimo, ora prediligendo geometriche inquadrature fisse (la sequenza domestica della telefonata di Yeong-cheol a Jun-gu) ora lasciandosi contagiare dalla burrascosa concitazione degli eventi (la sequenza della doccia forzata di Eun-suk, girata con una schizzatissima macchina a mano), fino ad abbandonare ogni ritegno e sciogliere tutte le tensioni accumulate in un fluentissimo montaggio alternato al ritmo di bossa nova (“O morro não tem vez” di Antonio Carlos Jobim & Vinicius de Moraes). Di questo lungometraggio d’esordio stupisce infine la straordinaria nitidezza con cui dalle immagini emerge un’idea di cinema profondamente personale: un’impronta che se possiede dei modelli di riferimento (probabilmente Tsai Ming-liang, forse il Kim Ki-duk formalmente più aspro) li ha assimilati in maniera così matura da non lasciarne alcuna traccia in superficie. Un film (e un cineasta) da difendere e coccolare senza tentennamenti. Presentato nel 2006 all’11° Pusan International Film Festival.
