SURROGATE WOMAN

Anno Produzione1987

TRAMA

Nella Corea della dinastia Choseon, Sang-gyu, rampollo di una famiglia aristocratica, e la moglie Yun non riescono a procreare, mettendo a rischio la successione della famiglia Shin. Zio e nonna di Sang-gyu convincono la nuora ad accettare in casa una sibaji, una donna che presti il suo utero fertile alla concezione di un figlio dal seme di Sang-gyu. La prescelta come utero in affitto è la vergine diciassettenne Oak-nyo, proveniente da un villaggio di sole donne nella Valle del Cancello di Giada. La vitalità e sfrontatezza della giovane però creano non pochi problemi, sopratutto allorché Sang-gyu si scopre preso di lei…

RECENSIONI

Il secondo film della serata è invece quel Sibaji (The Surrogate Mother o The Surrogate Woman) che ha fatto conoscere e apprezzare Im Kwon-taek alla platea internazionale, grazie all’invito al Festival di Venezia del 1987 (occasione in cui la protagonista Kang Soo-yeong si è addirittura aggiudicata il premio per la miglior attrice). La vicenda messa in scena è insieme elementare e terrificante: nella Corea della dinastia Choseon se la continuità di una famiglia nobile era messa in pericolo dalla sterilità della moglie, si ricorreva all’“affitto” di donne fertili (le sibaji, appunto) che prestavano il loro corpo per procreare e garantire la discendenza, tassativamente maschile (solo gli uomini potevano infatti officiare determinati riti). Il film racconta la “prima volta” di una sibaji (figlia di un’altra sibaji, ovviamente), inchiodando lo spettatore al suo destino di privazioni, umiliazioni e frustrazioni. Sobrio, essenziale, rigoroso, Im registra con inesorabile implacabilità lo spettro di emozioni generato dalla situazione in cui la diciassettenne Oak-nyo (la strepitosa Kang Soo-yeong) si trova catapultata. Spaesamento, timore, sofferenza, desiderio, passione, amore, apprensione, terrore, disperazione: The Surrogate Mother è abitato da sentimenti di un’intensità brutale, quasi fassbinderiana (giuro, è proprio Fassbinder il fantasma cinematografico che mi è venuto in mente), costringendo lo spettatore a fare i conti con la crudeltà di una tradizione, quella confuciana, tanto restrittiva e inderogabile quanto disumana e mortificante nei confronti delle donne. Al film è stata rimproverata un’eccessiva insistenza sui particolari violenti delle punizioni corporali e delle dolorose pratiche tese a potenziare la fertilità (ustioni ombelicali con incenso, soffocanti “respirazioni lunari”): inutile dire che, al contrario, la frontalità della messa in scena non fa che acuire l’atrocità delle pratiche stesse e l’assurdità di una tradizione così ferocemente antifemminile. La potenza figurativa di Im permea ogni inquadratura dall’inizio alla fine ed è proprio l’inquadratura di chiusura che ci piace ricordare in questo sintetico resoconto: il corpo senza vita di Oak-nyo pende impiccato dall’alto del quadro, sotto i suoi piedi la vita degli uomini va avanti come se niente fosse. L’agghiacciante normalità delle costrizioni.