TRAMA
Hojung, moglie di un avvocato di successo, è frustrata dalla vita casalinga; il marito la trascura per una giovane amante e a lei non rimane che occuparsi del figlio adottivo e del suocero alcolizzato. Finisce così per cedere alle attenzioni di un giovanissimo vicino di casa. Ma la situazione non tarda a precipitare.
RECENSIONI
L’opera n° 3 di Im Sangsoo apre sul mare mosso, quello della macchina da presa e di un insieme di detriti che, senza faro (un punto di vista dell’autore), restano in balia delle onde, senza capo né coda. Smussati dall’ironia e da un curioso commento sonoro per xilofono, sfilano avvenimenti immotivati quali un dramma politico collettivo (la fossa comune), l’investimento di un cane, la morte di un genitore (che inveisce contro Bush?), la follia di un assassino (per tacere della citazione di Fahrenheit 451). Il campo d’azione è delimitato dal quartetto protagonista dei tradimenti, filtrato attraverso coordinate di sesso e sangue, mostrate senza troppe ellissi: a suggerire l’assenza d’amore e la presenza della malattia? La sola certezza è l’erotismo Maliziaoso e a occhi aperti su varie pratiche sessuali (curiosa la perversione dell’amante dell’avvocato, che si masturba strusciandosi sulle sue natiche). Im Sangsoo conserva uno sguardo dolce per il rapporto madre/figlio, lo amputa brutalmente nella sequenza più scioccante del film, sintomatica (ma potente) della totale gratuità degli elementi che lo compongono. Forse tutto è speculare al carattere implosivo dell’avvocato che cerca una panacea nell’ossessione sessuale, ma chi può dirlo? Anche il regista è chiuso in se stesso. A (s)conti fatti, l’argomento principe è solo una banale incomunicabilità di coppia, ma l’ambiguo vuoto pneumatico salva Im Sangsoo: non si può tacciare di convenzionalità una pellicola che non segue alcuna prassi per avere senso. A riempire lo sguardo è il fascino di Moon Sori, irresistibile negli approcci divertiti-compiaciuti-provocanti e (infine) liberatori con l’adolescente (ma non siamo lontani dal glorioso softcore nostrano). Si possono ricordare i plongée sul letto (simpatico quello moglie/marito/figlio/suocera), varie schegge evocative/promettenti, il carrello all’indietro sull’accoppiamento in palestra con pianto (liberatorio? Disperato?) e, assurdo come tutto il resto, il felice (?) colpo di tacco finale.

Dall'Oriente uno sguardo poco rassicurante sul nucleo familiare. La famiglia pare infatti un'istituzione prettamente formale, svuotata di valori a cui aggrapparsi e rifugio asettico e ingombrante. Il protagonista è un avvocato di successo che tradisce costantemente la moglie. Questa, a sua volta, cede all'iniziazione sessuale di un giovane vicino di casa che ogni tanto ha incontrollabili e autolesionistiche esplosioni di rabbia. La coppia ha anche un figlio che finirà male (in una scena sconvolgente per la leggerezza con cui è posta) a causa di una vendetta personale. Anche i nonni non se la passano troppo bene. Uno è alcolizzato e in fin di vita, l'altra scopre le gioie del sesso a sessant'anni. Il desolante quadro è mostrato con una freddezza da chirurgo, lasciando una distanza tra spettatore e schermo che si fa via via sempre più grande. Le immagini arrivano così sempre più piccole e lontane. La scelta di evitare qualsiasi coinvolgimento emotivo diventa quindi un'arma a doppio taglio: se da un lato permette al pubblico di non affezionarsi ai personaggi e di vederli come specchio della società in cui sono immersi, dall'altro azzera l'interesse verso il loro destino. Essendo coreano ed essendo in concorso a un festival, il film arriva con annesso l'immancabile carico di scandalo. Anche i numerosi incontri sessuali, però, soffrono del gelo che permea il film e poco aggiungono alla narrazione, solo qualche dettaglio (sputi, rabbia) in genere assente nelle messe in scena orgasmiche occidentali.

Attraverso i nostri occhiali occidentali dal cinema d’Oriente ci aspetteremmo non dico l’originalità, ma perlomeno la diffusione di un’idea alternativa, portatrice di una visione peculiare (piaccia o meno) in grado di farsi “altro” rispetto ai prodotti da banco dell’industry di casa nostra. Ebbene, il film di Sang-soo Im è quello che non si vorrebbe mai vedere: un processo di occidentalizzazione forma un unico grande Stereotipo costretto in una grammatica filmica elementare, che non si sforza mai di uscire dalla macchietta. Questo l’aspetto più molesto: la pellicola nasce morta e neanche ci prova, individuando nello sfrenato deja-vù il suo punto d’approdo, ciò a cui vuole andare a parare. L’unico motivo di essere –in mancanza di altri- è dunque il tentativo di ingannare qualcuno, e inevitabilmente vi riuscirà (vi è già riuscito), complice lo studiatissimo “scandalo” che spaccia fin dalla locandina e un occhio rappresentativo di disarmante banalità (ancora una donna che scopa, ancora trafitta dal sole) che qualcuno dirà poetica. Per inciso: il film non è neanche coraggioso come sento in giro, anzi fin dall’inizio abbassa mestamente la cresta davanti alla censura ed al cinema. La globalizzazione (im)produttiva del nulla.

Su una tela affettiva consunta e in via di lacerazione si dipanano le storie minime di un gruppo di personaggi appartenenti (o orbitanti attorno) a una “rispettabile” famiglia borghese (non a caso il titolo originale Baramnan Gajok significa proprio “famiglia infedele”). Sono tre le generazioni ricamate sull’arazzo imbastito da Im Sang-soo: quella degli anziani (il padre morente di Young-jak e consorte), quella degli adulti (Ho-jung, Young-jak e l’amante) e quella dei giovani (il figlio adottivo della coppia, l’adolescente che fa la corte a Ho-jung). Uno spaccato completo che mira a evidenziare lo spaventoso vuoto di responsabilità di cui soffrono le figure maschili adulte, letteralmente incapaci di pensare ad alcunché salvo il proprio miope e immediato tornaconto. È evidente che a Im interessa porre l’accento sul ruolo attivo e potenzialmente liberatorio delle figure femminili, facendone risaltare la brillante capacità di liberarsi dal cappio delle convenzioni in opposizione all’ottusa staticità e neghittosità degli uomini, eterni bambini. A dire il vero, non tutte le figure maschili sono così irreparabilmente negative: nel suo ribellismo un po’ scomposto il giovane spasimante di Ho-jung presenta fertili e inequivocabili segnali di rigetto nei confronti del rigido sistema educativo coreano. Non sorprende perciò che la sua insofferenza si traduca in un desiderio/sogno di fuga (dapprima negli Stati Uniti infine in Francia) in cui possiamo indovinare un riflesso neanche troppo deformato dell’atteggiamento di Im (è bene ricordare che anche la più disinibita delle tre amiche di Girls’ Night Out manifestava il desiderio di trasferirsi in Francia). Le asperità di scrittura di Im sceneggiatore si percepiscono anche in questo film, insomma, e ancora una volta si coagulano attorno alla dinamica della trasformazione: alcuni personaggi già guariti dal morbo del conformismo – quindi esemplari – “trascinano” gli altri, ancora bloccati dalle convenzioni, in un vero e proprio percorso di emancipazione che suona un po’ schematico se non addirittura semplicistico. Ma ciò che sottrae prepotentemente e provvidenzialmente A Good Lawyer’s Wife alla schematicità del “film a tesi” è la supremazia stilistica raggiunta da Im: dopo la vitrea stilizzazione di Girls’ Night Out e l’impetuoso iperrealismo di Tears, il cineasta coreano controlla la materia visiva con una padronanza impressionante. Stupisce accorgersi all’improvviso, a circa metà del film, che Baramnan Gajok procede quasi esclusivamente per piani sequenza e long take interrotti bruscamente da scene in cui il montaggio procede invece per aspre sottrazioni o si annulla in quadri di fissità pensosa: basti pensare alle inquadrature a piombo che rappresentano momenti in cui Im si concede, e concede allo spettatore, la possibilità di fare il punto della situazione sugli eventi messi in scena (interpretazione, questa, confermatami dallo stesso regista alla conferenza stampa del Korea Film Fest). Ulteriore fattore di rilevanza visiva è il lavoro sull’illuminazione: anche la più banale scena di raccordo narrativo è irradiata da fasci luminosi che le conferiscono un’intensità pungente, quasi offensiva. Squilli di luce bianca che incidono la superficie dell’immagine, squarciando il velo pudibondo dell’apparenza. Finale splendidamente scivoloso, ancora più stupefacente se si pensa che non era quello previsto dalla sceneggiatura originale, ma che è stato escogitato per sopperire alla scarsa abilità coreutica di Moon So-ri (era infatti prevista una scena conclusiva di danza).
