TRAMA
Nei confini claustrofobici di una cella, un detenuto si impicca. Nell’alternarsi degli interrogatori dei compagni di cella e della ricostruzione degli eventi disumanizzanti che hanno portato al suicidio, emergerà un’orribile verità.
RECENSIONI
Nudo e crudo non basta
Etichettato dalla rete come il peggior regista del mondo, Uwe Boll continua a sfornare un film dietro l’altro. Film che in pochi vedono e che i pochi criticano con ferocia ma che, evidentemente, gli consentono di proseguire indisturbato per la sua strada. Con Stoic affronta il genere carcerario. Un suicidio, tre compagni di cella, una verità diversa da ciò che appare, attraverso una costruzione a incastri che alterna il presunto (gli interrogatori/interviste) alla realtà dei fatti (i flashback esplicativi). Prevedibilmente ognuno si difende come può, ma l’orribile verità è difficilmente occultabile. L’unità di luogo (a parte i monologhi su fondo nero tutta la vicenda è ambientata in un’unica stanza) punta alla claustrofobia e la cupezza che aleggia mira all’analisi antropologica, ma le ambizioni crollano sotto il peso di una grevità tanto gratuita quanto calcolata. Lo scopo del regista sembra ancora una volta essere quello di shoccare mostrando l’inaudito. Il problema è che diventa subito evidente che si assisterà a un’escalation di violenza, una sorta di via crucis dell’orrido in cui lo spettatore assume il ruolo di voyeur incolpevole di un dettagliatissimo massacro. Se tutto ciò portasse a qualcosa, contribuisse a creare un punto di vista, arrivasse davvero a disturbare, si potrebbe pensare al film come a un’opera scomoda e coraggiosa. Il fatto è che, una volta scoperte le carte (e la cosa avviene quasi subito), la noia regna sovrana e ogni nuovo tassello più che aggiungersi si limita a sostituirsi al precedente. Non aiuta la messa in scena grezza e urlata, la piattezza dello script (che non riesce mai a insinuare il dubbio), i cliché virati al cinico in cui cadono i personaggi, la recitazione incapace di trovare le mezze tinte (si passa dagli eccessi nel carcere al distacco per gran parte delle interviste) e la mano pesante con cui ogni siparietto comincia e si conclude. Alla fine di veramente inaudito c’è soprattutto la divisa da trekker che i protagonisti esibiscono con fierezza durante gli interrogatori/talk show. Un ennesimo passo falso, quindi, per Boll che getta un’ombra sinistra anche sul precedente Seed, ugualmente estremo e lontano da qualunque raffinatezza visiva e narrativa ma, nel ricordo, assai più potente.
