Commedia

MIO COGNATO

TRAMA

Bari. Il tranquillo impiegato Vito, al battesimo del nipote, subisce il furto dell’auto e chiede aiuto al cognato assicuratore Toni, esuberante personaggio dalle losche frequentazioni…

RECENSIONI

Secondo lungometraggio di Piva, dopo LaCapaGira, di nuovo ambientato nella sua Puglia e di nuovo incentrato su una vicenda malavitosa in un andirivieni dalla micro- alla “macro”criminalità. Il film si presenta come un road movie notturno e centripeto (molti chilometri percorsi ma limitato raggio d’azione) in cui una vicenda personale e particolare avrebbe, forse, l’ambizione di elevarsi ad affresco su vizi, amoralità e malcostume nostrani. L’impressione è in qualche modo suffragata dal finale, le cui implicazioni etiche, morali e civili non sono dissimili da quelle de Il Sorpasso di Risi, sorta di punto di riferimento archetipico e obbligato di chi si propone di rinnovare i fasti della commedia all’italiana “impegnata” a rispecchiare la realtà. Piva sembra riuscire solo in parte nell’impresa, forse sospeso a metà tra la voglia di fedeltà a una storia, a quanto pare, vera (raccontatagli da un amico) e le più alte ambizioni di cui sopra. Il film è comunque diretto con polso fermo e padronanza del mezzo e gli attori, tutto sommato, funzionano, anche se Lo Cascio sottrae un po’ troppo, Rubini decisamente troppo poco.

Il film di Alessandro Piva è interessante più per quello che non è (le trappole evitate) che per quello che è (il risultato complessivo, non proprio esaltante sebbene per nulla disprezzabile). Questa storia di cognati opposti (il cittadino modello e l’assicuratore maneggione), che scoprono FUORI ORARIO similarità inaspettate e un principio di affetto reciproco (ma i sogni finiscono all’alba), avrebbe potuto diventare l’ennesima commedia di costume [se una definizione del genere ha ancora (un) senso] venata di dramma: fortunatamente, il regista si mette sulle tracce del noir e del gangster movie, preferendo al mero calco una rilettura personale di temi ed elementi classici [vedi il ruolo assegnato alla città, una Bari barocca e fantasmagorica, lontana da consuetudini cartolinesche o (pseudo)neo-neorealistiche] che non esclude l’ironia (la nomenclatura del milieu malavitoso – “Sandokan”, “Saddam”, “Marlon Brando” – cui finisce per adeguarsi il bravo ragazzo Vito/“Gianni Morandi”) e a un tempo non vieta al sangue di scorrere, alla violenza di esplodere, ai misteri di farsi man mano più insondabili (il limone, terzo incomodo di gusto quasi buñueliano).
Efficace nel ritratto di un piccolo e inquietante mondo a parte dai codici (non soltanto linguistici) imperscrutabili e dalle dinamiche d’ellittica schizofrenia [“il Professore” deve agire con gli occhi chiusi (l’icona ineffabilmente pop di Santa Lucia)], MIO COGNATO scivola nel banale quando vuole sondare i rapporti fra i personaggi (il doppio femminile della coppia Vito/Toni è uno spunto maldestramente accennato) e perde parte del proprio fascino oscuro quando si concede siparietti di facile disgusto [odalische minorenni, tradimenti in variegata (pen)ombra, traffici motorizzati]. I tratti talvolta goffi della sceneggiatura sono parzialmente riscattati da una messinscena dai toni sapientemente liquidi, accessoriata d’idee cromatiche eleganti quanto espressive (il vestito di Toni, collegato alla spia visiva degli avvisi indirizzati ai cognati), capace di gettare una luce al neon di livido splendore su simmetrie e giochi di specchi dal taglio non esattamente innovativo, svelando al tempo stesso l’anima dark di ambienti ingolfati di ninnoli global-trash. In questo purgatorio metropolitano vista mare Rubini e Lo Cascio si muovono con ammirevole disinvoltura: se del primo sono confermate le doti istrioniche, la sorpresa è il secondo, capace di un crescendo espressivo (quasi) impercettibile che prepara (senza comprometterne l’impatto) l’esito del testo filmico.