Fantascienza

MINORITY REPORT

TRAMA

Washington, 2054. John Anderton è a capo della sezione speciale del Dipartimento di Giustizia Precrimine, istituito nove anni prima. Grazie alle previsioni di delitti di tre Pre-Cogs, la violenza sembra non essere più di casa nella capitale ed il nuovo sistema preventivo infallibile. Fino a quando lo stesso Anderton scopre, nella camera delle visioni, che lui stesso sarà l’autore del prossimo omicidio. Complotto o errore pregiudiziale? Occorre fuggire e ricercare il rapporto di minoranza.

RECENSIONI

Grande idea quella che ebbe il geniale Philip Dick nel 1956: superato il sistema classico, plurisecolare, del "sorvegliare e punire" post-factum, ecco l'unico modo per estirpare il male dalla società attraverso la previsione di un delitto che grazie all'intervento della polizia di fatto, paradossalmente, non verrà commesso. Il colpevole viene prelevato e messo in un campo di prigionia una settimana o anche pochi secondi prima di aver commesso il reato. Dunque, una punizione pre-factum; un castigo che anticipa un delitto che, verificatosi solo nell'ordine della metafisica, nella realtà fenomenica è stato evitato; un' ingerenza nel destino del singolo uomo e un limite alla sua libertà di scegliere. La cognizione del male diviene precognizione del delitto. "Noi diciamo che sono colpevoli. Loro, d'altro canto, proclamano in eterno la propria innocenza. E in certo senso sono innocenti". Questo nuovo metodo sfrutta le visioni di tre sibille dissennate, i Pre-Cogs, esseri privi di senno che vedono oltre, ricevono dati che altri decifreranno, "simili a vegetali, borbottavano, sonnecchiavano ed esistevano. Le loro menti erano offuscate, perse fra le ombre, le ombre del futuro". E' possibile che in un sistema di questo genere possa insinuarsi un ragionevole dubbio? E' possibile che tale raffinata macchina "ammazza cattivi" sia perfetta, dunque non umana, "oltreumana" dal momento in cui l'errare humanum est? “L’esistenza di una maggioranza implica logicamente una minoranza corrispondente”, dunque il sistema è fallibile. Queste, in sintesi, le tematiche dickiane del racconto “Rapporto di minoranza”, alle quali si aggiunge il conflitto tra poteri (esercito screditato ed infallibile sistema pre-crimine da screditare). Nella difficile trasposizione sullo schermo di un racconto così breve e così denso, gli sceneggiatori Scott Frank e Jon Cohen hanno lavorato di fino, cercando allo stesso tempo di non tradire lo spirito del testo e, di arricchirlo di spunti e di situazioni squisitamente cinematografiche, di nuove intuizioni, di paesaggi e figure già potenzialmente spielberghiane, mettendo così nelle mani del regista di “A.I.” uno script che mescola abilmente dramma e azione, intimismo e dinamismo, riflessione filosofica, spettacolarità e suspence. Spielberg non poteva non ritrovarsi in una storia che ha al centro non più, come nel racconto, il conflitto tra poteri, bensì il dramma familiare, il dolore del padre per la scomparsa del figlio e sviluppa, rovesciandolo, il motivo centrale in “A.I.”: la caducità degli affetti, soprattutto familiari (in “A.I.” la consapevolezza, del robot immortale, di dover vedere morire la "madre"; qui, la perdita del figlio). E’ inutile cercare con l’immagine registrata, immortalata ma che è sempre e comunque “morte al lavoro", di far rivivere ciò che non è più, che siano uomini, che siano sentimenti. La perdita e la morte ma anche un Potere tentacolare che viola sempre più l’angulus degli affetti, tutti insieme minacciano e distruggono il nucleo familiare, il nidus, il rifugio, l’unico luogo che, secondo Spielberg, può salvare l’uomo dai disastri della tecnologia e della politica. Ciò che in Dick non poteva avere una tale importanza e che invece gioca un ruolo centrale in questa agghiacciante previsione del futuro è l’occhio. Occhio come senso fondamentale nella percezione della realtà fenomenica e nell'acquisizione della consapevolezza di essere nel mondo, ma anche iride da leggere per il riconoscimento di un' identità che non può sottrarsi al controllo ininterrotto del Potere, del Commercio e della sua anima (la pubblicità, che nel futuro sarà “ad personam”). In una tale società dello sguardo, della dittatura dello sguardo, della proliferazione delgi sguardi, è libero solo colui che non ha occhi per vedere, che, per sfuggire ad un controllo insostenibile da chi non si è assuefatto ad un sistema alienante, ha deciso di sacrificare il Senso (l'occhio) del futuro ma anche del nostro presente, che sempre più utilizza i mezzi di registrazione visiva (si pensi alle telecamere di sorveglianza) come strumento di controllo e di repressione. La registrazione del pensiero e delle immagini mentali rappresentano l’ultimo stadio verso una “onnivisione” che è un “onnicontrollo”. Per sfuggire a se stesso e al controllo del sistema, John Anderton deve liberarsi dal “peso dell’occhio”. Lo fa sottoponendosi ad una operazione simile a quella cui si sottoponeva Bogart in un altro film sullo sguardo: “Dark Passage” di D. Davies. Nel film dominano le forme sferiche che rimandano chiaramente alla forma dell’occhio. Considerando che il cinema è il risultato di un occhio che filma, come non vedere nel film una riflessione sul cinema che registra il futuro (nella fantascienza), proprio come i pre-Cogs? La saletta in cui Anderton decifra ed interpreta, al suono dell'"Incompiuta” di Schubert, le immagini registrate è quella del regista/direttore d’orchestra che smonta e rimonta frammenti di realtà al fine di trarne un senso superiore. Come non considerare dunque il film come un monito, un avvertimento, come la preveggenza di un futuro terribile che, se non impedito da un provvidenziale intervento alla John Anderton, ridurrà l’uomo già ferito ad essere l’ombra di se stesso? Qui, paradossalmente, non è più la Storia, il passato (come in “Schindler’s list” o “Saving private Ryan”o “Amistad”) ad essere “magistra vitae”, ma il futuro. E’ singolare che la vita di Anderton, nel futuro, sarà messa in pericolo proprio per l’eccessivo zelo profuso nell far luce sul passato (“chi indaga nel passato trova tante schifezze” dice il carceriere che suona Bach ai detenuti presunti colpevoli).
Molte i motivi che rendono il film di Spielberg un'esperienza emozionante e rara: la ricchezza delle citazioni cinematografiche, la grande forza visiva, l'altissima tensione, la generosità narrativa, la densità filosofica e il piacere dell'affabulazione. Scenografie e fotografia (Kaminski predilige le tonalità fredde) contribuiscono alla riuscita del film e a rendere credibile una Washington del 2054 bagnata dalla pioggia e immersa nell’oscurità come nei noir degli anni '40-’50, in cui diavolerie ipertecnologiche (come i quotidiani, le pubblicità “ad personam” o le scatole di corn-flakes animati) sembrano essere state create più per l'incremento del capitale che per il progresso dell’umanità. Il regista dimostra di aver imparato a dominare gli effetti speciali. Tom Cruise è credibile nel ruolo del poliziotto malinconico e tossico sull’orlo di una crisi di nervi; von Sydow rifà se stesso con eleganza; Colin Farrell è una rivelazione; la Morton è prodigiosa. Con “Minority Report”, Spielberg ci illumina con uno di più efficaci vaticini del pre-Cog della nostra epoca: il cinema.

Riesci a vedere? Cosa vedi? Un futuro possibile o predeterminato? Le nuove sibille cumane, immerse nel liquido amniotico che lega tutti gli esseri viventi, "processano" le intenzioni, l'uomo le condanna. Il Blade Runner del 2054 corre contro il tempo, organizza le immagini dei rebus che i pre-cog(nitivi) producono: investigatore/regista, avvicina la polizia al clero, opera in un tempio, influenza i destini altrui. Del futuro, lo scrittore Philip K. Dick (il suo romanzo risale al 1956) teme i "sistemi perfetti", quelli che non ammettono errori per non mettere in discussione se stessi: la Giustizia, in questo caso, non accetta il "ragionevole dubbio" (i rapporti di minoranza) e sposa la pericolosa utopia della Sicurezza Totale. Per abbracciare la luce, però, bisogna conoscere l'oscurità, i veri vati sono ciechi: John Anderton/Cruise cambierà gli occhi per scegliere (cambiare?) il proprio destino e autodeterminarsi. In un complesso giallo/gioco di sponde, gli sceneggiatori affermano e negano di continuo l'esistenza di un solo futuro possibile: il "Tu puoi scegliere" rivolto da Agatha (Christie...) a Anderton, viene confermato dalla supremazia della volontà sulla sete di vendetta e subito disatteso dal suicidio del finto pedofilo. Le immagini profetiche avevano visto giusto, è la loro sistematizzazione/selezione a trarre in inganno, come ben sanno i pubblicitari che hanno colonizzato il futuro (la promozione della Precrimine ricorda Robocop). Nell'affannoso desiderio di controllare il domani, l'uomo confonde il cinema con la realtà: i veri assassini nascondono (male) il loro volto con il trucco ed il montaggio (perché i pre-cog non lo vedono?) e sfruttano l'imprescindibile errore umano. Lo stesso Anderton spera di lenire le proprie ferite (la perdita del figlio) con il controllo totale del crimine e, Angel Heart cui predicono il finale, si dimena nella gabbia del fato cucitogli addosso. Chi è l'eroe? Il difensore che crede in buona fede nel Sistema o l'avversario (non a caso, ex-seminarista) che s'adopera per demolirne la fede? Spielberg, dismessi gli eccessi sentimental/predicatori delle ultime prove, sceglie il chiaroscuro, il grigio metallizzato della fotografia di Kaminski, il décor anni quaranta (sia per gli accenti noir, con tanto di canzoni d'epoca, che per l'iconografia che richiama la fantascienza del periodo) e ritrova la tensione hitchcockiana degli esordi, fra spietate cacce all'uomo, voyeuristica messinscena del (pre)delitto, invenzioni sagaci e sorprendenti (dai molteplici omaggi cinefili all'inatteso entracte della "strega" nella serra). Il suo epilogo trova la favola ma non scioglie, insieme a qualche lacuna logica, l'inquietudine del dilemma etico (si è colpevoli di premeditazione?) e "filosofico" (il futuro si vede, s'influenza, esiste?). "Siamo stanchi del futuro", sussurrano i pre-cog: conta il presente, quel tessuto connettivo che fa sì che le colpe di uno cadano su tutti gli altri (figlio di Anderton compreso).

Il regista piu' famoso del mondo, uno degli scrittori di fantascienza piu' saccheggiati dal cinema e uno degli attori piu' conosciuti. Un'unione di talenti cosi' popolari implica grandi aspettative ma anche grossi rischi, perche' l'intento commerciale di piacere al maggior numero possibile di spettatori, richiede spesso compromessi che deludono chi invece si attende l'esplicitazione di un punto di vista personale e autentico.
Il risultato, nonostante qualche eccessiva semplificazione (soprattutto nel finale), non delude comunque chi ama il buon cinema. La storia, che racconta un prossimo futuro in cui e' possibile prevedere i crimini prima che vengano commessi, e' molto intrigante e Steven Spielberg si conferma un grande assemblatore di immagini ed emozioni. La sua maggiore abilita' e' di riproporre, con ironia e un senso dello spettacolo "bigger than life", un plot originale ma dagli sviluppi classici: un personaggio solo contro tutti, un trauma da rimuovere (che pero' resta tale), un rigido "count-down". La sceneggiatura si preoccupa di spiegare il piu' possibile, lasciando nel vago alcuni elementi che restano irrisolti (perche', ad esempio, la capacita' precognitiva dei "Pre-Cogs" ha un raggio di pochi chilometri?) e avvicendando in modo un po' meccanico continue sequenze causa - effetto. Ma e' proprio la regia, unita al montaggio serrato di Michael Kahn (il prologo e' in questo senso un vero e proprio gioiello) e alla fotografia desaturata di Janusz Kaminski, che permette di assecondare la discontinuita' della narrazione. Momenti razionalmente inaccettabili si trasformano cosi' in una gioia per gli occhi. Basta pensare alla lunga sequenza in cui il protagonista deve operarsi agli occhi, che diventa un grottesco teatrino dove l'horror si sposa con la parodia. Oppure all'incontro tra Tom Cruise e la creatrice dei "Pre-Cogs", perno della narrazione ma assai didascalico, che assume toni tra la favola e il sogno. Altri momenti, narrativamente superflui, come l'inseguimento fracassone del protagonista trainato da "jet-pack" o la rocambolesca fuga da una fabbrica di auto, sono comunque posti con l'opportuna leggerezza.
I personaggi sono costruiti con le necessarie motivazioni per renderli credibili e gli interpreti ben si calano nell'atmosfera onirico-futurista del progetto. Colpiscono soprattutto l'intensita' e il trasformismo di Samantha Morton nel ruolo della vulnerabile ma potentissima Agata, il "Pre-Cog" piu' illuminato. Ma anche Tom Cruise evita di gigioneggiare gesticolando a destra e a manca (vedi il mediocre "Jerry Maguire") e per una volta la sua missione impossibile appare meno sghignazzante e piu' dolorosa. Il personaggio meno riuscito e' sicuramente quello, inizialmente marginale e poi risolutivo, dell'ex-moglie, privo di una caratterizzazione in grado di salvarlo dall'anonimato.
Quanto ai contenuti, il film offre una visione poco rassicurante del futuro, in cui la privacy e' annullata in nome di un presunto bene comune e dove la persona diventa semplice oggetto di consumo. Molti gli spunti, le sfumature e le possibili implicazioni, e pochi gli approfondimenti. Ma il film non vuole essere un trattato contro i pericoli dell'avvenire e non prende una vera e propria posizione pro o contro la spersonalizzazione dell'individuo. Lascia allo spettatore l'opportunita' di trarre considerazioni e ai personaggi un libero arbitrio a cui appellarsi una volta conosciuta la verita', ma la critica sociale diventa piu' che altro uno sfondo in cui ambientare una storia tesa ed avvincente. C'e' forse qualcosa di negativo in questo? Un bravo regista deve come obiettivo primario scuotere le coscienze o mettere il suo talento al servizio del racconto? Il dubbio e' piu' che lecito, ma rischia di annacquare l'efficacia di una visione il cui punto di forza resta comunque il "divertissement".

“Minority report” è probabilmente da considerarsi un film non riuscito, a tratti fastidioso, pessimo secondo alcuni, deludente per il modo in cui le pretese iniziali tendono a crollare in un semplicismo e in una sciattezza di fondo tali da renderlo in sostanza un film fragile (come fragilissimi sono i suoi personaggi), ideologicamente ambiguo e confuso (anche se non così odioso quanto le ultime nauseanti dichiarazioni di Spielberg in fatto di politiche estera, anche perché l’apparente substrato ideologico del film cozza duramente con le frasi in questione). Nonostante le premesse va detto però che il film presenta un valido motivo di interesse che rischia di essere considerato marginale. Sarebbe bene ricordare infatti che sotto la crosta di un mediocre action movie fantascientifico (a tratti di uno squallido dramma psicologico, quando penetra nei meandri della tragedia familiare del protagonista) si nasconde un film sul cinema, o meglio un film che scaturisce dal tentativo di un’analisi dei meccanismi della visione delle immagini. Il compito dell’agente John Anderton è quello di analizzare immagini (mentali) riprodotte su uno schermo, di decifrarle e di attribuire loro un significato mancante, trattandosi di immagini imperfette, difettose perché provenienti da una realtà ancora irreale e incompiuta. Se il cinema raccoglie fatti e immagini reali (nel senso di realmente esistenti di fronte alla macchina da presa) per riproporle come macchie di luce sullo schermo, il sistema su cui si basa il dipartimento della Precrimine presenta macchie di luce che sono la proiezione diretta di un pensiero e che rimandano a un fatto che sarà reale in un futuro prossimo, producendo a tutti gli effetti un sovvertimento del normale procedimento di produzione dell’immagine (ecco un magnifico esempio di fantascienza). Sarebbe possibile a questo punto identificare la figura dell’agente Anderton con quella del regista, artigiano che fa il cinema con le mani, che entra con le mani dentro un flusso infinito di immagini che sono tutte le immagini del mondo per pescarne alcune, per metterle in fila, scomporle, muoverle liquidamente, al fine di costruire un significato. A ben vedere la figura di Anderton manovra immagini che non conosce e che sono già date in partenza, e quindi il suo compito è forse paragonabile per lo più a quello del montatore. Il ruolo del regista (e non soltanto nel senso di manovratore degli eventi) è giocato dal personaggio interpretato da Max Von Sydow, che pensa di poter sfruttare il sistema di precognizione a suo favore improvvisandosi metteur en scene, cercando di fare una sorta di parodia del sistema, cercando in sostanza di fare del cinema, un cinema del futuro che consisterebbe nel pensare una messa in scena (la messa in scena di un crimine) in modo che sia ripresa, invece che da una telecamera, dalle menti dei precog, e quindi proiettata sugli schermi dei dipartimenti della precrimine. Il solo fatto di pensare un’azione quindi è sufficiente non solo per crearne automaticamente l’immagine sugli schermi ma anche per mettere in moto un meccanismo che procede automaticamente alla creazione del fatto reale, già esistente in una realtà futura. Non fa quindi differenza se il protagonista del fatto (del crimine) sia lui o l’agente Anderton, quello che conta è che il pensiero dell’evento (e quindi la sua immagine) crei l’evento, avvicinando così la figura del regista cinematografico a quella di dio, senza però essere né l’uno né l’altro, perché se un regista produce immagini e un dio produce eventi in questo film (in questo futuro) gli eventi e le immagini degli eventi si presentano necessariamente legati e inscindibili. In buona sostanza quindi il personaggio di Max Von Sydow fallisce per aver usato il cinema per inscenare una parodia umana di Dio, sia per il fatto di manovrare il corso degli eventi secondo la sua volontà sia per il fatto di essere un assassino, perché ogni assassino nel dare la morte semplicemente si sostituisce a Dio. L’uso criminoso del cinema inoltre non fa che esaltarne la sua natura, e il cinema di “Minority Report” è un cinema dell’incubo proprio perché esibisce potentemente la naturale pulsione del cinema a manovrare fantasmi, gente morta come quella che appare sugli schermi della precrimine. Se il cinema lascia scomparire cose e persone sullo schermo per presentarci i fantasmi di quelle cose e di quelle persone sotto forma di luce, così il sistema di precognizione funziona soltanto in presenza di una futura ed eventuale morte della persona che appare sullo schermo (perché con gli stupri ed i furti ad esempio il sistema non funziona), facendo così della morte l’unico elemento scatenante di questo meccanismo visuale che forse sarà il cinema del futuro.

Da Pinocchio a Edipo tiranno: il regista più visionario del cinema americano [così lo definisce il supplemento settimanale di un noto quotidiano (niente nomi, per favore)] realizza con questo Minority Report un cripto-adattamento del capolavoro di Sofocle. Gli elementi essenziali ci sono tutti: la macchina infernale montata dal fato [incarnato da un disuman(at)o Von Sydow] contro un imputato-giudice colpevole e innocente, che non sa di avere commesso/stare per commettere un omicidio; un indovino cieco e androgino che cerca invano di aprire gli occhi (la bocca…) a se stesso e all’ignara pedina della sorte; una cecità delittuosa da espiare attraverso la rinuncia alle pupille, a un’immagine snaturata che solo l’esilio e la metamorfosi [anche fisica, da (troppo) giovane re a vecchio mendicante] possono cancellare; la salvifica letalità dei legami familiari, che si riflettono sulla politica; lo scontro fra ragioni dell’uomo e ragione/i del destino.
Sfortunatamente, il buon Steven non ha il senso della tragedia attica. Preso com’è a consacrare ogni millimetro di pellicola a quesiti morali (?) di desolata superficialità [e ripetitività, visto il numero di film, dalla serie di Ritorno Al Futuro a Timecop, che hanno affrontato il tema della (ripar)azione verso ciò che deve ancora avvenire] e a quadretti di esilarante grevità (il finale, baratro d’idiozia), il regista glissa sugli aspetti più neri e intriganti del soggetto (quali sogni avvolgono i criminali del pensiero?) e stritola il già pericolante racconto nelle maglie del fumettone (i buoni finiscono bene, i cattivi male), castrando ogni possibilità di catarsi. I personaggi sono abbozzati con mortificante semplicismo [vedi i coniugi che, separatisi dopo la scomparsa del figlio, si riconciliano senza preavviso (o motivo) per l’edificazione del gentile pubblico], gli eventi si susseguono, in un mare d’illogicità (come evadere da un centro di massima sicurezza? togliendo il tappo alla vasca delle meduse visionarie, ovvio), secondo uno schema telefonato [lo stesso vale per i dialoghi, soprattutto negli interventi di Agatha (sussurri e grida, silenzi e isterismi in noiosa alternanza)]. Un umorismo maldestro e condiscendente e un paio di tocchi “d’autore” (gli eterni fluidi oscuri, una gravidanza nell’incipit e una nel finale) danno il colpo di grazia.