TRAMA
Michael Clayton è il “Mr. Wolf” di un importante studio legale newyorkese che sta concludendo a buon fine la difesa nella causa ai danni della U/North, colosso dei prodotti chimici agricoli. L’avvocato Arthur Edens, però, amico di Michael, dà di matto e rischia di mandare all’aria la causa…
RECENSIONI
I tre giorni del Clayton
L’America post kennedyana, gli intrighi, i complotti, le spie, la denuncia, l’impegno civile e il thriller. “A grandi linee” Michael Clayton è un po’ questo, col ricordo che – si fa per capirsi - corre al Pakula degli anni ’70 (Una squillo per l’ispettore Klute, Perché un assassino, Tutti gli uomini del presidente) e al Pollack de I tre giorni del condor. Tony Gilroy, con all’attivo almeno due signore sceneggiature (Dolores Claiborne e L’avvocato del diavolo), si scrive un film che sa gettare ottimo fumo negli occhi e se lo dirige assai dignitosamente. Per fumo intendo un’aura da filmone impegnato, con una narrazione intricata solo in apparenza e personaggi meno complessi e sfaccettati di come ce li spacciano. Ma ci sta. Allo spettatore medio (lo scrivo con tutto il dovuto rispetto) sembrerà di aver visto chissà che, uscirà dalla sala sazio e compiaciuto di aver capito tutto (mica come in Syriana), soddisfatto del lieto fine finto-imploso ma lieto e sarà ben felice di aver colto tutte le sfumature del caso, mentre quello scafato non avrà molto di che lamentarsi, si godrà una costruzione comunque solida e avrà modo di apprezzare un esordio registico misurato, funzionale allo script e capace anche di confezionare qualche buon momento (il piano sequenza dell’uccisione di Arthur, l’efficace e ruffiana “scena risolutiva” chiusa dalla cattivona in ginocchio, l’epilogo lungo-ma-non-troppo stretto sul primo piano di Clooney). Tutto qui? Sì, ma non ci pare così poco.
Esordio registico del valente sceneggiatore Tony Gilroy, rientra nella schiera di opere d’impegno civile della Section Eight di Clooney-Soderbergh e pare ereditare da quest’ultimi stilemi all’apparenza inconciliabili: la verbosità e classicità di Clooney e la sperimentazione di Soderbergh. Per capire basti la parte iniziale destrutturata: la voce off getta sul filmato fiumi di parole deliranti (scopriremo solo in seguito che a parlare è il socio andato giù di testa), mentre la macchina da presa scruta gli ambienti in modo insolito, stilizzato. La sceneggiatura, in seguito, passa di palla in frasca a macchia di leopardo, misteriosa sul ruolo dei caratteri, senza alcun baricentro, con qualche velleità autorale (il lirismo dell’incontro di Clooney con tre cavalli), salvo ripensarci, fare dietro-front (un flashback torna a quattro giorni prima) e, progressivamente, abbracciare una drammaturgia sempre più tradizionale, scontata. Il sapore che resta è quello di un Erin Brockovich destrutturato in parte, come se Gilroy avesse prima redatto un trattamento standard poi, mescolando un po’ le carte, ci avesse appiccicato un prologo con scrittura impazzita, quasi godardiano. Il mistero sulla reale identità morale del protagonista permane per tutta la durata, e non è del tutto voluto, ma funziona meravigliosamente il disegno della villain di Tilda Swinton: Gilroy la riprende in privato quando si prepara i discorsi, per ribadirne nervosismo e insicurezza e ascrivere la sua cattiveria alla paura, per azioni quindi molto più inquietanti (in quanto meno prevedibili).