TRAMA
Quattro ragazzi decidono di fare un film e diventano subito “la sorpresa del festival”.
RECENSIONI
Con Baghead siamo in pieno campo metafilmico: gruppo di twenties in interno, casa di campagna, si applicano a scrivere un soggetto, che parte come sentimentale ma diventa uno slasher – e il film vero intanto è una commedia -; nel frattempo il mostro da loro immaginato, un maniaco con busta di cartone in testa, si manifesta davvero e ha cattive intenzioni; ancora nel frattempo, i ragazzi che riflettono sulla costruzione della pellicola sono la pellicola, quando l’opera comincia Baghead finisce perché il film è già stato fatto. Fissato l’acuto corredo teorico, i registi Usa indipendenti Jay e Mark Duplass scelgono un inizio eversivo: la ripresa nella sala cinematografica in pochi minuti spezzetta l’idea di Festival, attacca frontalmente gli squali di Hollywood e riafferma la superiorità inventiva del basso budget (per entrare al party esclusivo serve un colpo di fantasia). Dopo tale sequenza scoppiettante, però, si impegnano specificatamente a “riflettere sul mezzo”: sfottendo il filmino amatoriale con le sue stesse armi - Baghead è un filmino amatoriale - , hanno l’accortezza di non fermarsi al grappolo di citazioni (per tutti l’epilogo autostradale da The Texas Chainsaw Massacre), variano il tema e mutano i codici, con palate d’ironia e doppi livelli, alcuni futili e altri riusciti, vedi l’Imprevisto che irrompe nel finale. Attori dalla strada, tra tutti Steve Zissis nella parte di Chad, rischio altissimo, pochi soldi e molto cervello: l’esito è discontinuo, ma comprensibilmente amato dal pubblico più cinefilo.