TRAMA
Nelle indagini sperimentali sui casi di omicidio, la polizia russa si serve del giovane Valya nella parte della vittima sulla scena del crimine; il ragazzo riceve in visita il fantasma del padre.
RECENSIONI
Siamo vittime del sistema
Serebrennikov, regista teatrale, riscrive una sua stessa piece per il grande schermo e vince il Concorso della Festa del Cinema di Roma. Playing the Victim supera il rifacimento semplice dell’Amleto (riconoscibile in due dettagli: il ruolo dello spettro paterno e lo scioglimento dell’intreccio nel sangue) e presenta un affresco critico e provocatorio della Russia oggi. L’impiego del protagonista, vittima sulla scena del crimine, la dice lunga sulla condizione grottesca da accettare al fine di campare e, più generalmente, incide metaforicamente lo spaccato di un’implacabile condizione esistenziale (a padre morto, il nido famigliare giace nella totale incomunicabilità a cui Valya consapevolmente si arrende). Il complesso post sovietico è allo sfacelo: l’autorità, prigioniera di metodi falsamente avanguardistici, si copre di ridicolo, la deriva dei sentimenti sarebbe divertente se non fosse disperata (la scena di letto tra Vanya e Lyuda, con intervento materno, è totalmente straniata e inietta un inquietante rimorso per le nostre incontrollabili risate), un’attrice decaduta si ricicla geisha in uno squallido locale cinese, il Paese sbanda sotto l’imperativo di tirare avanti. Questo non viene mai esposto ma resta sottotraccia, benchè chiaramente percepibile, e l’autore rivolta la faccenda in chiave ironica mettendo tutto in discussione, anche assunti universali come la Giustizia, che diventano improvvisamente arbitrari (la sequenza nello spogliatoio della piscina); la commedia salta da un registro all’altro e vive di innesti alieni, talmente devianti e fuori luogo da risultare perfettamente azzeccati nell’economia del quadro (la sfuriata del capitano contro le nuove generazioni - la cui lettura iperbolica non richiede commenti -, la canzone della geisha). Il film recupera infine il senso del tragico - come a dire: attenzione, si parla di cose serie - e chiude con l’ennesimo rovesciamento, da vittima a colpevole, che affoga naturalmente nel bagno di sangue (ma senza una goccia dello stesso) e rende il costrutto privo di speranza, chiudendolo a suggello con una sequenza onirica, magnifica per sospensione e tenuta drammatica, in cui il protagonista impara simbolicamente a nuotare. Straordinaria la scelta di Yuri Chursin, un attore/marionetta vacuo e meccanico, che regala una memorabile personificazione al vuoto doloroso cui l’opera ci inchioda senza scampo.
