TRAMA
Dopo la morte del figlio per un problema di cuore non diagnosticato, Larry Pearce impazzisce sconvolto dal dolore ma acquista un incredibile udito soprannaturale.
RECENSIONI
Pump Up The Volume
Fa la sua new-entry nei "Masters of Horror" il regista Brad Anderson. Come insegnano i precedenti lungometraggi, "Session 9" e "L'uomo senza sonno", Anderson ha una concezione filosofica dell'orrore e al gore predilige i dettagli psicologici, con la messa a nudo dei lati oscuri dell’inconscio. Con "Sounds like" la peculiarità dello sguardo si conferma cifra stilistica. Protagonista è infatti Larry, un uomo che dopo la perdita del figlioletto comincia progressivamente a staccarsi dalla realtà e a vivere in un mondo tutto suo, dove i rumori sono fastidiosamente amplificati. La perdita come apertura di nuove sconvolgenti opportunità. Un rifiuto di ciò che è reale attraverso un mutamento della percezione. L'isolamento come chiusura nelle proprie deliranti convinzioni. Un graduale senso di distacco che porta a perdere di vista le possibili conseguenze dei propri gesti. Succede così che la vita diventi per Larry un vero e proprio inferno. Una situazione apparentemente rilassante e silenziosa, come la lettura di un libro in biblioteca si può infatti trasformare in una tortura se ogni singolo suono (lo sfogliare delle pagine, il tamburellare delle dita, lo sbattere delle ciglia, il mangiarsi le unghie) viene esasperato fino a diventare insopportabile. L'idea alla base del mediometraggio di Anderson, interessante, è però tutta qui e viene dilatata, dapprima con curiosità poi con una certa ripetitività, fino a una conclusione un po' prevedibile. Se lo straniamento causato dalla distorsione dei suoni è reso per immagini in modo convincente, risulta però concettualmente poco credibile. Anderson rende infatti la follia acustica del protagonista separando i singoli suoni a beneficio dello spettatore: prima il ronzio provocato dalle ali di una mosca, poi il brusio di un gruppo di colleghi che parlano in mensa, poi ancora lo stridere delle posate in un piatto, senza che avvengano mai sovrapposizioni di suono. Lo stratagemma acquista ovviamente significato per la messa in scena (è più bello vedere ogni singola iperbole piuttosto che un indistinguibile frastuono generale), ma ne perde a livello di veridicità. A supportare la deriva del protagonista, l'ottima prova di Chris Bauer.