SOPHIA DE MELLO BREYNER ANDRESEN

Anno Produzione1969

TRAMA

RECENSIONI

analisi congiunta a Quem Espera Por Sapatos De Defunto Morre Descalço

La morte di Joao Cesar Monteiro è stata senza dubbio il momento più triste di questo 2003 cinematografico e il Torino Film festival non ha saputo esimersi dal dedicare al grande cineasta portoghese il giusto tributo, anche in occasione dell’uscita (in Francia, per esempio...) del suo ultimo, splendido film (“Vai e vem”). Vedere questi primi due cortometraggi (presentati in coppia) è stato importante non solo per aver finalmente frantumato il loro perenne stato di invisibilità, ma anche e soprattutto perchè si sono rivelati due tasselli imprescindibili della filmografia di Monteiro. Guardare in “Sapatos” quella stessa quercia (ai giardini di Principe Real a Lisbona, luogo amato dal cineasta) attorno alla quale gravita “Vai e vem” è stato semplicemente commovente, è stato come se tutto il suo cinema si fosse aperto e chiuso con quelle quercia (che fa pensare a un altro grande albero della storia del cinema, quello all’inizio di “No, o la folle gloria del comando” di Manoel de Oliveira), e con il raccordo tra lo sguardo in macchina di Luis Miguel Cintra e l’occhio di Monteiro alla fine di “Vai e vem” (Margarida Gil, a fine film, parlerà del mito Orfeo, dello sguardo dopo la morte). E’ incredibile come in questi due film siano già raccolte tutte le tematiche ricorrenti nel cinema di Monteiro. “Sophia de Mello Breyner Andresen” è un breve documentario parte di una serie di film commissionati per descrivere alcune personalità importanti della cultura portoghese. Si apre con una dedica a Dreyer e prosegue come un ritratto di famiglia che è allo stesso tempo una dichiarazione d’amore per la lingua portoghese e un saggio sull’impossibilità di filmare la poesia. E’ un film girato di fronte all’oceano, come lo splendido “A flor do mar”. In “Sapatos” troviamo invece il cinema (parla di due ragazzi alle prese con un film che cercano di ottenere le scarpe dei defunti per rivenderle), Lisbona, l’autobiografia (si apre con immagini di Londra, dove Monteiro passò un anno alla London School of Film Tecnique), i primi sintomi di quel folle picarismo che è alla base del suo cinema (come ha fatto notare Julio Bressane a fine proiezione). Due film fondamentali, che a cavallo tra gli anni sessanta e settanta partono e si staccano dalla lezione della nouvelle vague per esplorare un cinema personale e libero come pochi altri al mondo, in grado di far coesistere nella stessa inquadratura classicismo e avanguardia, l’ombra e la luce, l’occhio e la macchina da presa uno di fronte all’altra.