Drammatico

ME AND YOU AND EVERYONE WE KNOW

Titolo OriginaleMe and You and Everyone we Know
NazioneU.S.A./Gran Bretagna
Anno Produzione2005
Durata91'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Christine, folle artista fallita, incontra Richard, commesso di calzature in crisi coniugale.

RECENSIONI

Due solitudini sullo sfondo brullo e desolato della deviante provincia americana; tutti sono anormali, i bambini ci guardano con ossessiva alienazione, il folklore sbircia alla finestra. Sepolto da elogi e premi di varia risma (ha vinto il Sundance ma anche la Semaine della Critique e la Camera d’Or a Cannes) l’esordio di Miranda July spinge a manetta il tasto dell’assurdo, in virtù di un’intenzione mediamente sincera e stimolante ma scadente nei tipici difetti del (medio) cinema indipendente: l’articolazione del discorso banalotto cui uno stile attentamente trascurato – il solito ossimoro - non conferisce alcuna dignità, il taglio forzatamente alternativo che ricade però sulla solita tematica (l’amore, la sofferenza, il miele), una diffusa tenera follia che induce al facile aggettivo – “carino” – relegando l’opera nella gabbia dei suoi limiti. ME AND YOU inizia anche bene, evocando la caducità umana (il padre di Christine) con una manciata di sequenze (Richard/Muzio Scevola brucia la mano che non ha saputo ricomporre l’idillio familiare) che azzeccano pienamente il paradosso – la morte al lavoro trova forma, in maniera quasi wesandersoniana, in un pesciolino rosso (un vero rovesciamento dello squalo giaguaro in STEVE ZISSOU) – ma poi si sciupa in una galleria di caratteri di singolare qualunquismo. La July pesca da parecchi colleghi (il pompino alla Larry Clark, il gusto insurrezionale di THIRTEEN) ma il suo discorso è sempre in filigrana: malgrado una sequenza acciuffi il nocciolo della questione – il bacio impossibile fra il bambino nero e la donna della chat – tutto resta un casuale collage di follie a metà prezzo, slabbrato alquanto, dove la stessa regista/attrice costituisce il maggior difetto. Il suo personaggio esemplifica in pieno ciò che l’autore non deve mai fare: piazzarsi al centro della storia sino a mozzarle il respiro, indugiare nell’infinita contemplazione di sé stesso, scriversi la parte male ma in compenso recitarla peggio, infine insinuare, sotto l’ombrello dell’arte, quella boriosa e supponente serietà che rimanda al patrio morettismo da marciapiede.