TRAMA
Londra. Chris, giovane insegnante di tennis, sposa Chloe, rampolla di una famiglia ricca, ma è attratto da Nola, fidanzata del cognato ed attricetta allo sbando. La relazione con quest’ultima sembra portarlo alla rovina ma lui medita un piano.
RECENSIONI
C’è solo una cosa peggiore di un autore comico che non fa ridere, ed è un autore tragico che annoia. Può darsi che le più recenti fra le prove di Allen (HOLLYWOOD ENDING e ANYTHING ELSE su tutte) fossero molto simili a un fascio di stinte fotocopie, ma la presunzione e la vacuità di questo MATCH POINT sono una novità per nulla piacevole. Togliamo di mezzo la comicità, non è poi una gran perdita: Allen ci ha già regalato tragedie livide, capaci di strappare risate d’angoscia non (solo) con battute al vetriolo ma con analisi grottesche quanto impietose dei grovigli del fato e degli abissi del cuore (ANOTHER WOMAN, SETTEMBRE, CRIMINI E MISFATTI, tanto per non fare titoli). MATCH POINT non esplora un dramma, si limita a enunciarlo. La formul(ett)a “ascesa sociale con sottofondo di adulterio, conseguente delitto e castigo interiorizzato” (Chris legge Dostoyevsky, non so se rendo l’idea) non riassume il film, è il film: il prologo “ipnotico” spiega dove andrà a parare (o no) la vicenda, la presentazione dei personaggi è sbrigativa ai limiti dell’imbarazzo (nell’alta società inglese si fraternizza in fretta con i fascinosi maestri di tennis), la definizione dei caratteri sommaria (e svolta integralmente attraverso i dialoghi, che – eccezion fatta per un paio di colpi ben assestati – sono un fuoco di fila di cliché) quanto quella degli ambienti (la griffe è di rigore, ma l’ironia con cui il regista di ALICE osservava il bel mondo dorato si è alquanto ammorbidita), il dipanarsi della liaison dangereuse uno strazio infinito a base di timide trasgressioni (gli amplessi patinati), scontate opposizioni (gravidanza inseguita/gravidanza molesta) e improbabili voltafaccia (la metamorfosi di Nola, da saggia quasi-cognata a rovinafamiglie). La svolta omicida, meccanica ma abbastanza ben giocata a livello filmico, risolleva per un po’ le sorti dell’opera, che nel finale ripiomba nel ridicolo mescolando Sofocle, Bergman e inutili sogni rivelatori. Una confezione tecnica non indimenticabile (soprattutto dal punto di vista della fotografia) e infelici scelte musicali (nessuno tocchi Caruso, ma il finale secondo di Otello con maldestro taglio – onde adattarlo alle esigenze sceniche – e le opere al Covent Garden con accompagnamento di pianoforte – l’orchestra sciopera spesso? – si potevano tranquillamente evitare) non migliorano certo le cose.
Parafrasando Verdi: ritorna te stesso, Woody, sarà un progresso.
E’ successo: dopo anni in cui Allen si rimirava allo specchi(ett)o (per le allodole), dibattendosi nelle sue opere senza trama né trovate (degne di nota) – bastino HOLLYWOOD ENDING e ANYTHING ELSE per guardare il vuoto dritto negli occhi -, oggi il regista è tornato finalmente a girare un film. Per farlo, per ritrovare un briciolo di senso (che pareva) ormai smarrito, Allen rimuove il maggior ingombro degli ultimi anni: sé stesso. Da New York a Londra – attuale casa dell’autore, un canto sacrificale a questo formicaio proteso sul Tamigi -, dal jazz alla lirica tragica (Verdi accarezza ogni sequenza chiave), passando per una ragnatela di tensioni per sfociare nella zona d’ombra noir. Ma se un modesto esegeta dell’allenismo basterebbe a scovare i precedenti del suddetto detour (un’occhiata a CRIMINI E MISFATTI), la nostra sincera meraviglia abita nella tenuta della partitura: MATCH POINT si appunta all’occhiello un nitido rigore e profondità, film asciutto che interpella non Woody ma l’inquadratura (il bellissimo coito sotto la pioggia, primo vero quadro figurativo da anni), non è un provvisorio bricolage di pellicole precedenti, niente tediosa caccia alla citazione, un cast che ammazza ogni dubbio (Rhys Meyers è belloccio e maledetto, la Johansson neanche più rivelazione, la loro intesa spontanea), in una parola tiene.
Fin dall’inizio: come una pallina da tennis danza a rete indecisa sul proprio percorso, così il bivio sofferto dei nostri personaggi - dal tragico al grottesco – impalmando a loro insaputa la Fortuna come unica, divina matrigna delle loro vite. Di contro, in violenta contrapposizione all’inguaribile fatalità del mondo “di sotto”, l’involucro del cinema narra di una scalata sociale con clinica nudità, alla stregua della cronaca; non tutto è perfetto, affiorando in certi casi lo sterile capriccio (una disastrosa sequenza al Tate Museum, rimando a PROVACI ANCORA, SAM), in altri la meccanica del marchingegno (i due detective sono stereotipi, alcuni dialoghi non proprio fulminanti), ma un finale di sopito terrore – rivolto più a Chabrol che al mentore bergmaniano -, dove l’agio disperde la polvere sotto il tappetto, basta per bisbigliare al miracolo.
MATCH POINT non sembra un film “di Woody Allen”, quale dote migliore…
Nella conversazione che concludeva Crimini e misfatti Martin Landau, assassino impunito rasserenato e soddisfatto, esprimeva a un attonito Woody Allen il proprio scetticismo sull’idea di una giustizia che prima o poi si imporrebbe nei destini umani: l’occhio di Dio è cieco, e affidarsi al senso di responsabilità dell’uomo nei confronti dei suoi simili sarebbe “letteratura”, ingenuo illusionismo umanistico. Con Match point viene offerta una nuova illustrazione di questo assunto; depurato dell’umorismo e dell’ironia che nelle ultime prove del regista newyorkese avevano offerto ben poco costrutto, il film si concentra con efficacia di maniera sull’aspetto drammatico, e perfino sul terreno della pura azione, dove sortisce un risultato sorprendente: la progressione che culmina nella sequenza del duplice omicidio sembra realizzata da un agguerrito veterano del genere. Per contro, il milieu sociale dei protagonisti – che pure avrebbe offerto parecchi spunti in varie direzioni – viene inquadrato con genericità, e alquanto sommario risulta anche il gioco dialettico dei personaggi (comunque aiutati da una bellezza vacua e dalla quale l’opacità morale emerge, se ci si passa il bisticcio, con trasparenza). A indiretta conferma di tale rozzezza in profili che un tempo erano altrettanti punti di forza della concertazione alleniana, sta la casualità dell’accompagnamento musicale dominato dal melodramma (in edizioni antiche e assai discutibili, musicalmente e vocalmente; chissà se Allen era così negligente anche nella scelta del jazz per i suoi film precedenti): in un primo momento esso sembra istituire un rapporto tematico con la fabula – secondo il modello che ha avuto la sua espressione perfetta in Senso e quella forse più “melodrammatica” in Philadelphia – ma subito questa traccia viene abbandonata senza abbracciarne una alternativa; né quella satirica (stile L’onore dei Prizzi), né quella allusiva (come in The new world dove Malick, con straordinaria pertinenza, mostra un mondo ancora intatto dalla volontà di potenza sulle note del preludio de L’oro del Reno). Per fare solo un esempio, Allen utilizza la scena dell’Otello verdiano in cui Jago fa cadere il Moro nel proprio inganno (scena di fraudolenta conversazione seduttiva, quindi, in cui il sentimento che viene messo in moto è quello della gelosia) per commentare una scena d’azione violenta: il compimento sanguinoso del disegno del protagonista, il quale si muove per avidità (altro che gelosia!) benché in preda a paura e rimorso. Era tanto difficile pensare al personaggio di Macbeth, alla sua sete di potere, ai tormenti che lo assalgono fra un assassinio e l’altro, e optare per una colonna sonora meno inappropriata ma di pari, se non maggiore, impatto fonico?
Woody Allen, non è una novità, sa(peva?) girare un film. Anche esulando dal bergmanesimo più sfacciato (Interiors, più che un film un’”operazione”), le incursioni in territori relativamente alieni hanno picchi assoluti (Another Woman) e ipotesi di sviluppo inattese quanto concrete (la suspense maneggiata con cura nel comunque alleniano Manhattan Murder Mystery). Quel che stupisce di più, quindi, di Match Point non è tanto la sua relativa ma sostanziale riuscita, quanto la data di realizzazione post-Hollywood Ending, bollito misto in salsa Allen servito freddino al dopolavoro cinefilo. Un epitaffio non molto decoroso, insomma, di mortifera autoreferenzialità. Invece no. Woody sfodera nel 2005 un filmetto vivo e vegeto, con pochi (ma presenti) segni di necrosi che non guastano irrimediabilmente l’insieme: un incipit sospensivo e affascinante, una partenza lenta ma tesa, uno sviluppo riuscito con qualche crepa e un finale col botto, con un paio di cadute sulle quali chiudere un occhio. Se infatti i personaggi sono complessivamente ben delineati (con qualche clichè che ci può stare) e l’architettura complessiva, filmica ed “etica”, scricchiola ma regge (in fondo, è paro paro quella già sperimentata nel bel Crimes and Misdemeanors) ci sono però alcune cosette che proprio non vanno; passino l’eterno ritorno ai soliti loci (gli incontri al museo, i ristoranti chic dove scambiarsi sguardi adulterini) e qualche didascalismo di troppo (Chris legge Delitto e Castigo… e poi ti ammazza pure la padrona di casa…) ma l’inversione a U del personaggio di Nola, “funzionale”[1] ma troppo repentina, la pretestuosa irruzione di Bergman (e di Sofocle!) e la faciloneria con cui i detective archiviano il caso sono stecche pesanti, che rischiano di rovinare tutto. Abbondanza di primissimi piani, retti benissimo dai protagonisti (specie dalla Johansson), e una piccola “trasgressione” registica di Allen che risolve gran parte delle (molte) sequenze di dialogo ricorrendo al classico campo-controcampo e non, come suo solito, al movimento di macchina.
E’ curioso che proprio coloro che hanno contribuito a prolungare l’agonia critica di Woody Allen lodando qualsiasi cosa abbia prodotto in questi anni oggi scrivano che MATCH POINT è finalmente una grande prova dopo tanti film spenti e privi di inventiva. Ma come? Quando quei film uscivano nelle sale tutti lì contenti come pasque, a sostenere che al nuovo Allen era impossibile rinunciare, che il vecchio cuore batteva ancora, che le sue meravigliose freddure erano un balsamo irrinunciabile per i loro umori acerrimi di critici incartapecoriti pronti a sdoganare ciarpame in the name of love (e i titoli sono troppi e a cosa servirebbe enumerarli? Sono quasi 20 anni di robetta) e oggi, sfrontati, ci dicono papale papale che no, stavano scherzando, le ultime opere erano in realtà poca cosa, che il vero Allen è questo, che qui ritroviamo il suo artiglio, che il tocco magistrale ci sta tutto. E allora un po’ m’incazzo e un po’ penso che è il caso di darci una sbirciata a questo MATCH POINT, ché tutti stavolta parlano di grande riscossa, ché qualcosa [tipo quel PALLOTTOLE SU BROADWAY, film non eccelso ma imprevedibilmente dignitoso dopo anni e anni di p(i)attume a cui altri anni similari sarebbero seguiti e stanno seguendo] forse è successo davvero. E che su questa aura di ri(ri-ri-ri-ri)nascita ci abbia marciato anche la produzione ce lo dice la campagna pubblicitaria d’impeccabile furbizia che presentava il film con una serie di immagini in montaggio rapido e di didascalie accompagnate da voce fuori campo e musiche ammiccanti - i Koop, tra gli altri – (che non ritroveremo nella pellicola: l’autore non si tradisce e ricorre ai pezzi di repertorio che conosce e ama) e l’annuncio, imprevisto, del nome del regista cui seguiva l’aaah di sorpresa del pubblico ignaro (Ma è il nuovo film di Woody Allen!).
Tutto fumo.
Woody Allen gira a Londra, ha cambiato scenografo (Jim Clay, al posto del consueto Loquasto) e direttore della fotografia (ma questo sorprende un po’ meno: sembra che da un po’ di anni il nostro si diverta a provarli un po’ tutti da Zsigmond a Khondji, da Zao a Von Schultzendorff ma il Remi Adefarasim - una filmografia non memorabile – di questo film è confermato anche per il prossimo progetto – SCOOP -, ovviamente già girato) ma per il resto la storia recente cambia poco con il ritratto dal vero di questo tennista in disarmo con progetti di ascesa in continuo divenire, Raskolnikov a metà, che commette delitto ma non subisce castigo, e che sa esattamente cosa sta facendo (Dostoevskij sul comodino: è il protagonista del film o solo il suo sceneggiatore a ispirarsi al russo per risolvere la questione? Si scopre Chris un uomo straordinario e per questo autorizzato a scavalcare gli ostacoli al suo progetto sociale con atti che si pongono fuori dalla legge morale?), di fatto adottato dall’alta borghesia che sembra plasmarlo ma che egli stesso prova a manipolare fino a quando, capita l’antifona, non vi si conforma integralmente.
MATCH POINT è il solito Allen totalmente drammatico con egocentrismo a riposo (come INTERIORS o UN’ALTRA DONNA in cui bergmaneggiava alla grande, il crepuscolare SETTEMBRE, il palloso ACCORDI E DISACCORDI, l’inguardabile MELINDA E MELINDA) anche se il riferimento obbligato è per la metà drammatica del sopravvalutato benché mediocre CRIMINI E MISFATTI (è proprio la stessa broda) e come in quel caso l’ansia del discorso da fare si abbatte sul film come un uragano e lo spazza via; tutto è dunque esposto frettolosamente (descrizione degli ambienti, caratteri dei personaggi e loro relazioni), tutto è abbozzato e tirato via in nome di una tesi da esporre: che le classi sono soggette a regole ferree, che i ricchi che perdono possono sempre barare, che la fortuna aiuta di più i già fortunati - il cane morde lo straccione, piove sempre sul bagnato etc etc -, che l’alta società ha tutti i mezzi per difendere se stessa, nulla la scalfirà (ed è soprattutto per questo che Chris decide di far fuori, tra i due figli in arrivo, quello perdente). Dunque il protagonista assapora con Nola il frutto della vera passione ma per non essere punito dall’enstabilishment che ne ha fatto un suo accolito, decide di abbattere l’albero della tentazione alla radice, conscio che, dai tempi di Romeo e Giulietta, un legame che sfida le convenzioni sociali è destinato a trionfare solo con la morte, poiché dell’amore come cosa viva è dato solo parlarne o al massimo rinchiuderlo in camere da letto lontane da occhi indiscreti: il renderlo pubblico è un atto di anarchia destabilizzante che conduce alla tragedia, di sangue o di portafogli a seconda dei casi. Discorsi triti che si possono ritrovare, con ben altro acume e crudeltà, in un qualsiasi film del maestro (lui sì) Chabrol.
E battute imbarazzanti per qualsiasi orecchio (“Hai visto il libro di Strinberg che stavo leggendo?”) sono il sintomo della nuova incapacità del cineasta di spacciare con credibilità l’estenuato stereotipo dei suoi personaggi imbevuti di ottime letture, musica alta (un palco all’opera), arte sopraffina (Chloe è gallerista mica per caso). Ancora una volta un’ideuzza (quella del match point come metafora della vita – sfiorato il nastro la pallina diventa perdente o vincente: la sorte deciderà - che si esplicita nella svolta fatale del finale) e basta. Messinscena e montaggio sono al minimo sindacale, totalmente anonimo l’intreccio (pesantemente ripiegato sul simbolo e con personaggi monocromatici), piatta la scrittura tutta imperniata su dialoghi tendenziosi e/o dimostrativi e comunque privi di smalto (l’inqualificabile apparizione fantasmatica delle vittime, citazioni che citano – aiuto! -, è poi una caduta di stile che non merita commenti).
Tutto fumo. Peccato, per un attimo ci avevamo creduto.
Riassunto della situazione.
Woody Allen si libera del contratto con la Dreamworks che gli imponeva di sfornare commedie e si lancia in pieno noir. Lascia l’America ingrata e hollywoodiana e si tuffa a corpo morto in atmosfera british.
Di più. Ottiene buoni incassi.
Il tutto senza sconti per gli abitudinari: Allen non si ritaglia particine (per la verità il semplice fatto di vederlo tra gli attori avrebbe in parte smorzato i toni drammatici) e non lascia spazio alle battute. Se ne potrebbe dedurre che gli “alleniani” (nel senso limitativo del termine) siano molto meno numerosi degli spettatori interessati a vedere una storia torbida tra due giovani attori emergenti ed alla moda. Ma per quanto una pellicola come questa possa apparire ad alcuni “non propriamente alleniana”, secondo chi scrive lo è invece profondamente, ed esserne “investiti” è un autentico piacere. Benché associare all’immagine di Woody Allen un pessimismo tanto profondo e senza vie d’uscita sia forse non facile, tutto il film ed i messaggi che esplicitamente veicola appaiono fin dall’inizio fortemente sentiti e non casuali. Dribblando i noiosissimi paragoni con altri film, con Crimini e misfatti in particolare ma anche con Un posto al sole, per non parlare di quelli con Delitto e castigo, si può affermare che Match point è una storia semplice ed esemplare, narrata in modo programmatico per chiudere il cerchio aperto nel bel prologo, con mirabile coerenza.
Fatta eccezione per qualche lungaggine, il film si dipana limpido in un crescendo di suspense ed assume gradualmente toni diversi con lo sviluppo della vicenda e delle personalità. Tutti i personaggi (come gli attori che li interpretano) assecondano impeccabili i piani del regista (sempre incantevole direttore d’attori) e aiutati da sontuose ambientazioni inglesi ed arie d’opera danno forma precisa ad un intero universo sociale. Emily Mortimer, moglie scialba, dolce, inconsapevole – forse per questo va letteralmente pazza per la vita in tutti gli aspetti che conosce – sembra ideale per essere tanto distrattamente notata dallo spettatore quanto distrattamente Chris le sta accanto, mentre Scarlett Johannson, fatale e perdente al tempo stesso, non ispira alcuna simpatia né immedesimazione, il che non è casuale. Ma è soprattutto il protagonista a riflettere la profondità del film: un uomo che non riusciamo mai a scoprire fino in fondo (quanto calcolo c’è nella sua scalata e nelle sue scelte? Quanto sincero è il suo attaccamento alle persone oltre che all’ambiente?), ma che svela un’umanità ben lontana da freddi stereotipi. Il fulcro del film è proprio il ragazzo che all’inizio sembra lasciarsi trascinare dagli eventi, quello che senza grande impegno si trova sistemato in modo invidiabile ma poi, prima che possiamo sospettarlo un freddo calcolatore, perde la testa come un qualsiasi innamorato, quello che gela la sala con una fucilata folle, impacciata, geniale, e poi scoppia a piangere tremando come uno qualunque. Proprio lui dà voce ad Allen svelando il ruolo decisivo della fortuna (lode al temporaneo inganno della monetina), la mancanza di giustizia e di un “senso” (in quel momento starà forse pensando all’insensatezza del percorso di inseguimento-eliminazione di Nola?). E alla fine resta così, estraneo e distante dal mondo che si è garantito. E non certo per il moralismo che sente di dover punire almeno indirettamente il colpevole.
È stato un piacere, Woody.