TRAMA
Mathieu ha 15 anni e vive con la madre operaia, separata da un marito poco affidabile e assente dalla vita del ragazzo. Studia in un istituto agrario e si reca in una fattoria dell’Alto Doubs, nell’est della Francia, per svolgere il suo apprendistato. Lo studio e il lavoro si intrecciano arricchendosi nel rapporto che il ragazzo instaura con Paul, l’anziano proprietario della fattoria.
RECENSIONI
Verità o rappresentazione?
Il film di Samuel Collardey è incentrato sul periodo di stage che il giovane Mathieu, ragazzo di 15 anni, svolge presso la tenuta del contadino Paul: le attività agricole mostrate nel dettaglio (l'uccisione del maiale, la nascita del vitellino, la pulizia delle stalle), l'iniziale diffidenza con il fattore, le discussioni con la madre, le ore di svago con gli amici, il piacere di una vita all’aria aperta, il succedersi delle stagioni, il progressivo rinsaldarsi del rapporto con Paul a causa della mancanza della figura paterna, fino alla conclusione dell’esperienza con l’approssimarsi del periodo estivo. Con una certa distanza, che però non significa freddezza, Collardey segue il giovane e bravissimo protagonista nel suo percorso di maturazione, documentandone le ansie e i momenti bui come pure le piccole conquiste quotidiane. Il pregio della regia è nella sua invisibilità. Per 85 minuti si è trasportati in un mondo contadino dai rituali codificati in cui l'unico ritmo è quello scandito dalla natura e dove Mathieu compare in una credibile alternanza tra vivacità e insicurezza, spavalderia e ritrosia, tipico della sua giovane e tutt’altro che facile età. L’efficacia della messa in scena è frutto di un’attenta ricerca da parte di Collardey, che ha scelto il cast attingendo alla realtà, con non attori chiamati a interpretare la vita vissuta, per cui Paul è un vero contadino che si è avvalso della collaborazione di ragazzi in tirocinio presso la sua fattoria e Mathieu è un vero ragazzo che ha studiato agraria. Il risvolto positivo è la grande naturalezza del risultato. Il limite quello di una costruzione che, paradossalmente, nel ridurre il confine tra verità e sua rappresentazione rischia di vanificare la spontaneità dei gesti, rendendo lo spettatore incerto sull’onestà della messa in scena. Può non essere importante come si arriva al risultato, ma se durante la visione l’interrogativo sul “come” finisce per dominare il “cosa” significa probabilmente che l’ingranaggio non è perfettamente oliato.
Niente da ridire sul termine documentario, anche se è evidente come la realtà non sia stata solo contemplata. Lungi dall’essere polemico, semmai è proprio su questo punto che bisogna rendere omaggio alla sensibilità di Collardey. Il gran pregio sta nella trasparenza, nella capacità di assoggettare un percorso premeditato (e probabilmente spinto nelle direzioni volute) nel quale il delicato approccio riesce a distaccarsi da ogni forma di retorica stereotipia. Prendiamo lo sfondo dell’Alto Doubs: il fascino della natura è palpabile, vivo, lontano da costrizioni di atavico significato (togliamoci dalla testa il fantomatico locus amoenus). In questa atmosfera che non richiede di ostentare il tipico circuito città-campagna-città (il secondo, come tirocinio, è la necessaria epifania formativa per comprendere meglio il proprio mondo), l’orizzonte dell’esperienza abbandona il netto confronto (la parentesi del padre assente, di un’incomunicabilità spiazzante, occupa solo un breve segmento) e vive della sua semplicità. Mathieu non riesce a trovare solo una figura paterna, ma, cosa ben più importante, un nuovo universo di valori e significati: su tutti spicca il legame tra lo sgozzamento/macellazione del maiale (1) e la nascita del vitellino. Sebbene già sentito, questo spontaneo abbraccio degli opposti è toccante.
Primo premio alla 23ma Settimana Internazionale della Critica.
(1) Il ragazzo immerge le mani dentro il corpo squartato dell’animale e ne sente il calore. La poesia si commenta da sola.