TRAMA
Il viaggio nell’entroterra algerino di un giovane disilluso, Malek.
RECENSIONI
Gabbla è la storia della deterritorializzazione di una coscienza sociale e politica: il protagonista Malek compie un itinerario che lo porterà ad allontanarsi da uno spazio, o da spazi, socialmente marcati e storicamente/culturalmente delimitati, verso un entroterra selvaggio che è il luogo della liberazione di sé intesa come riappropriazione delle proprie qualità di soggetto umano svicolato dal contesto e dalla logica dell’agire finalizzato. Deluso dalle produzioni discorsive politiche, destinate a non tradursi in azioni, egli decide inizialmente di vendersi, accettando di partire per un villaggio sperduto dell’Algeria Occidentale (l’Ouarsensis), al fine di effettuare delle rilevazioni topografiche per una compagnia che intende costruire tralicci in quella regione non ancora servita dall’elettricità, non ancora raggiunta dalla modernità. Arrivato in quella regione selvaggia ed aspra, inizia a misurarla, nel tentativo di impossessarsi, su commissione, di quello spazio antropizzato “aperto”, di de-limitarlo. L’incontro con una migrante senza patria lo destabilizza: abbandona l’inane progetto e decide di aprirsi prima di tutto all’altro, incaricandosi di riaccompagnare la donna, sprovvista di documenti (in più, ha cambiato idea: I want to go back), al suo paese d’origine. Ma quale paese, quale patria? Una patria? Durante il viaggio di ritorno, i personaggi perdono progressivamente di vista le finalità del loro agire, del loro movimento inizialmente intenzionato e “diretto verso” (il Tchad): oltrepassati i limiti ontologici (Malek e la migrante sono oramai un unico essere), superato l’ultimo confine, si ritrovano in uno spazio naturale “aperto” e infinito. Il racconto si sfalda (non sembra più rispondere al vincolo della causalità), le identità narrative si “indeboliscono”, nel senso che diviene difficile cogliere il senso delle azioni di personaggi che, inoltre, cessano di verbalizzarsi, di dir-si e di spiegarsi (la relazione Tarek/migrante è fatta di sguardi, non di parole; la donna non ha nemmeno un nome): ci ritroviamo così in pieno entroterra, in una terra di nessuno che è la terra di tutti. Il luogo della diaspora identitaria, in cui non ci si perde perché si è già perduti. Al secondo lungometraggio (il primo, Roma wa la n’touma, era notevolissimo), Tarik Teguia ha già uno stile e una poetica riconoscibili: un’immagine digitale magmatica, fluida, soggetta alla casualità e rifuggente la dittatura del beau plan; un racconto dai tempi dilatati, uno sguardo mobile che non fissa su pellicola il profilmico ma lo attraversa. Gabbla non è “solo” il film della Mostra, ma il probabile film dell’anno.
