TRAMA
Giura svizzero: Jean e Laure, dopo aver perso la loro bambina nell’incendio del fienile della loro casa, vedono il loro legame entrare in crisi. Per salvare la sua azienda agricola dalla rovina economica Jean decide di andare a lavorare in fonderia dove incontra Labinota, profuga kosovara, e Kastriot, il fratello di lei.
RECENSIONI
Cuori gelati, dopo il fendente di un destino che ha portato via la figlioletta; la moglie prima sbrocca (una sorta di regressione svagata) poi si allontana, il marito prima cerca di ricondurla a sé e alla ragione poi, esausto, cambia direzione: in modi e situazioni diversi la coppia impara a convivere con la sofferenza e forse a trovare di nuovo una strada comune. Il film, facendo leva su un paesaggio in evidente chiave empatica, ha un certo rigore nella descrizione delle ferite dell’animo dei protagonisti e di una voglia di sanarle che conduce a nuovo strazio sì, ma purificatore di quello primario, nel delineare personaggi tutti privati di qualcosa (Jean e Laure della loro figlia, Kastriot della patria, Labinota del marito e della dignità), nel penetrare in ambienti socialmente ed etnicamente differenti per dimostrare come, pur nelle diversità di cultura e di reazione, l’esperienza del dolore devasta tutti nello stesso modo.

Atto di dolore
Potrebbe tranquillamente concorrere come film più triste della storia il debutto nel lungometraggio del polacco, ma svizzero di adozione, Greg Zglinski. A partire dalla situazione descritta (la crisi di una coppia dopo la morte della figlia di cinque anni in un incendio), passando per il contesto sociale (la dura vita contadina a cui il protagonista deve rinunciare optando per un più sicuro posto in fonderia) e geografico (il Giura svizzero, con un inverno dalle temperature polari). Malgrado un incedere cupo, il film qualche speranza la offre. Negli affetti, che si potranno consolidare solo dopo essersi persi e ritrovati, e nei rapporti di amicizia, unica opportunità di dialogo, confronto e possibile sfogo. È bello e credibile il legame che si crea tra il protagonista e la profuga kossovara, una donna indurita dalla vita (il marito è probabilmente morto durante l'offensiva serba) ma ancora capace di reagire con vitalità alla mestizia della sua condizione. Meno riusciti, perché più schematici, i rapporti con i lavoratori in fabbrica (tutti, tranne uno, sono ostili) e l'attaccamento della moglie alla perniciosa sorella. Nonostante non racconti nulla di nuovo, dal tentativo di superare il dolore ("La stanza del figlio", "Film Blu") alla solitudine come estremo rifugio dalla disperazione, all'incapacità di comunicare, il film gode di una messa in scena semplice e rigorosa e di interpretazioni molto intense. Su tutti il bravissimo Aurelien Recoing, che esprime con adesione quasi devastante tutta la sofferenza del suo personaggio, trasformandosi in una maschera di costante dolore. Grande assente l'ironia, ma la vita e le vicende dei protagonisti sembrano averla irrimediabilmente risucchiata.
