TRAMA
Febbraio 1945: sul’isola di Iwo Jima si combatte una delle battaglie decisive della II Guerra Mondiale. Il morale e l’economia americana sono in caduta libera ma cOntribuisce a risollevarli entrambi la nota foto di sei soldati che, al termine della sanguinosa ma vittoriosa battaglia, issano la bandiera americana.
RECENSIONI
La cosa più interessante di Flags of our fathers è il progetto di cui fa parte: tra pochi mesi uscirà infatti Letters from Iwo Jima, ossia la stessa vicenda raccontata dal punto di vista dei giapponesi (in giapponese sottotitolato). Quello che abbiamo al momento, però, in attesa del gemello nipponico, è un tronfio trionfo della retorica dell'antiretorica. Clint Eastwood gioca, cioè, al piccolo cinico: smitizza l'eroismo mentre lo celebra per vie neanche tanto traverse; demistifica la bandiera, mettendola al centro di squallide vicende 'promozionali', ma ne riafferma di fatto lo strapotere iconologico; finge di negare il patriottismo bellico ma si limita a trasfigurarlo in amicizia virile. Questi sono i messaggi [1] del film. C'è da dire che sono spediti sporadicamente bene anche se in modo del tutto derivativo: la prima sequenza sul campo di battaglia, notturna e di trincea, è efficacemente giocata su primi e primissimi piani ma è anche pesantemente reminiscente di una sua (quasi) omologa in Orizzonti di gloria; lo sbarco sull'isola, con conseguente carneficina, è sì vigoroso e realistico ma anche fortemente debitore del noto avvio di Salvate il soldato Ryan, con la sua fotografia desaturata, l'handycam di ordinanza e gli otturatori veloci; gli insistiti campi lunghissimi della flotta americana, di rozza ma potente spettacolarità, rimandano direttamente a quelli del bistrattato Troy. Questi alcuni dei riferimenti precisi e circostanziabili, ai quali se ne affiancano altri più sfumati ma non meno riconoscibili (John Ford, per dirne uno). Anche questa banale ma corretta messinscena conosce però il suo tracollo quando la scelta registica portante, la progressione narrativa costruita sui flashback (didascalicamente esplicitata da due diverse tarature cromatiche della fotografia) diventa un inutile giochino formale, semplicemente vuoto nella sua meccanica ripetitività.
[1]'Se vuoi mandare un messaggio vai all'ufficio postale' (David Lynch). Condividendo in tutti i suoi sensi possibili tale affermazione, non nascondo il mio imbarazzo nel dover parlare di una cosa abominevole come 'il messaggio del film', ma FOOF manda proprio dei messaggi. Purtroppo.
Non già l'epica, bensì l'elegia è la musa di Eastwood. Ciò appare tanto più evidente in un film di guerra, dove le note magniloquenti e parenetiche sono difficilmente evitabili (nel cinema recente, a nostra memoria solo Malick e Gitai le hanno rimosse più drasticamente di Clint). La prima parte di Flags of Our Fathers, sospesa nella malinconia del ricordo e in quella condizione a metà fra entusiasmo e paura, tra l'euforia e il vuoto che precedono l'attacco, è molto bella; nel segmento propriamente bellico, condotto con mestiere consumato e senza la volontà di aggredire allo stomaco lo spettatore, si cercherebbe invano l'incalzare atroce e furente d'uno Spielberg (Salvate il Soldato Ryan); piuttosto, vi si ravvisa un incedere implacabile e quasi monotono nel suo fluire uniforme, tra lenti movimenti di macchina (si direbbe che sfuggiamo all'immobilità a oltranza di altre opere solo per la necessità di seguire il movimento della battaglia) e dissolvenze old style in un cinema semi-invisibile che, è stato notato, costituisce oggi il termine di confronto “per riconoscere tutti gli altri cinema”. Come sempre nelle ultime opere dell'americano, sono la responsabilità e una colpa il centro da cui irradia il tormento dei protagonisti e il movente di quella che si può definire l'autentica “azione” del film: i sopravvissuti chiamati a celebrare la vittoria di Iwo Jima sono perseguitati dal ricordo dei compagni caduti, della loro fine che li ipnotizza o li fa scoppiare in lacrime o li induce a cercare l'oblio nell'alcool, dunque li rende dannosi alla propaganda di guerra che ha bisogno soltanto di virili certezze ideologiche. Peraltro, l'apparato militare e politico non è neppure mostruosamente cinico e manipolatore, ma piuttosto un ingranaggio efficiente e indifferente (o quasi); la visione di Eastwood è, se si vuole, ingenua nel suo tradizionalismo, nel suo essere centrata su un dilemma totalmente privato: la visione d'un padre affranto per la sorte dei figli (ma alla retorica filiale/paterna si devono le note meno riuscite del film, le sue 'parole di troppo', come se l’autocontrollo dell'autore avesse qui ceduto improvvisamente), non appagato da imperativi risolutori o da un'idea astratta di giustizia e di necessità esistenziale/storica. Quando poi un'idea così smaccatamente fuori moda – uno dei temi centrali, se non addirittura il tema del suo cinema, almeno negli ultimi quindici anni – naviga in un film ove la prevedibilità delle figure di linguaggio e delle evenienze narrative (il nemico è ben appostato, il capriccio dei comandanti provocherà vittime inutili, i giovani verranno falciati uno dopo l'altro nell'impotenza disperata dei compagni) è costante e scientemente perseguita, la taccia di non-cinema è ugualmente scontata, quasi che la vertigine, l'accumulo e la divagazione fossero gli unici strumenti a disposizione d'un autore.
Si diceva dell'autentica azione del film, che non è la conquista del territorio nemico bensì il doppio movimento, generato da un'unica ansia morale, dei due protagonisti: infine, Ira dovrà dire la verità mentre Doc non potrà farlo (così come Marlow, in Cuore di Tenebra, non può raccontare la verità sulle ultime parole di Kurtz). Un'azione intima più e prima che concreta, un'azione che non può fidare nelle verità precostituite qui riassunte nella parola “Patria” [1], ma deve trovare da sé la propria norma, senza per questo trovare la pacificazione: accadeva lo stesso in Mystic River e in Million Dollar Baby. Non la vendetta o la giustizia, non il rispetto d'una determinazione definitiva sono sufficienti per recuperare all'individuo agente l'equilibrio spezzato, che in Flags né il silenzio né la parola potranno garantire: l'uno e l'altra costituiscono “solo” il momento d'un prolungato cammino ove il mettersi in gioco è posta necessaria, ma all'esito del quale sta in ogni caso un assorto addio alla vita.
[1] In tale contesto si giustifica l'inserimento, senza clamori e con qualche ripetizione non necessaria, d'un tema altrimenti estraneo alla poetica del regista, aliena da aperte polemiche o da predicazioni supponenti: l'uso propagandistico delle immagini di guerra (ieri, la celeberrima foto della bandiera americana a Iwo Jima; oggi, la soldatessa Jessica), la retorica eretta su una catasta di cadaveri, la necessità realistica e cieca al tempo stesso di reperire quattrini per finanziare la prosecuzione della guerra. Non è difficile individuare, nei buoni di guerra che gli “eroi” di Iwo Jima devono pubblicizzare ai concittadini, un riferimento ai war bond con i quali il governo Bush ha finanziato, durante la guerra in Iraq, i tagli fiscali a favore dei ceti benestanti; a tale proposito, Paul Krugman denunciò a suo tempo l'imporsi di “nuovi standard di cinismo” e la “credenza dei politici secondo cui fino a quando essi sapranno agitare vigorosamente la bandiera patriottica, nessuno noterà che in realtà sono indaffarati nel curare speciali interessi” (La deriva americana, Laterza, 2004).
In difficile equilibrio tra la secca brutalità de Il grande uno rosso e la frenetica irruenza di Salvate il soldato Ryan, Flags of Our Fathers disegna una nitida parabola antieroica, scagliandosi contro il patriottismo mitologico, sgretolandolo a colpi di granata. Eastwoodianamente solide e resistenti, le fondamenta morali vengono alla luce a distruzione avvenuta: sotto la superficie bombardata non si scopre il rabbioso (e sublime) nichilismo di Fuller o l’enfasi retorica di Spielberg, ma un’umanità intima, calorosa, basata sulla contiguità del prossimo. Detto più chiaramente, Flags of Our Fathers muove dal principio “I veri eroi sono i caduti” per approdare all’affermazione “Forse non esistono eroi”. Percorso semplice dunque, visto e rivisto, attraversato da una miriade di film e inaugurato – almeno secondo chi scrive – dal magnifico Uomini in guerra (Men in War, 1957) di Anthony Mann. Eppure Eastwood, portando sullo schermo il romanzo omonimo pubblicato nel 2000 da James Bradley e Ron Powers, schiva piuttosto efficacemente la convenzionalità della parabola, frammentando ripetutamente la narrazione e giocando sulle continue dislocazioni spazio-temporali. Gli episodi della battaglia di Iwo Jima e dei marines che piantarono le due bandiere – quella vera e quella falsa(!) – sul monte Suribachi sono infatti riferite al figlio di John “Doc” Bradley da più testimoni oculari, voci narranti che gradualmente “costruiscono” il resoconto degli avvenimenti. Agganciando la sorgente della narrazione a più personaggi, Eastwood complica i meccanismi di identificazione e disattiva la componente più esplosiva del film: quella del terrore, del pericolo e della paura come agenti di coinvolgimento spettatoriale immediato. La frammentazione del racconto, che a volte torna addirittura sui propri passi, impedisce insomma di partecipare meccanicamente alle vicende rappresentate e di identificarsi una volta per tutte con i protagonisti (apprezzabili le interpretazioni di Ryan Philippe nei panni di Doc e di Jesse Bradford nel ruolo di Rene, meno convincente, invece, quella, idrica, di Adam Beach nella parte di Ira). Discorso analogo per la rappresentazione delle sequenze di combattimento: pur scaraventata nel teatro dell’azione insieme ai soldati, la mdp riprende sempre “qualcosa di più” del fatto nudo e crudo (una lingua di terra nera sullo sfondo, una distesa di marines pancia a terra, un aereo in fase di atterraggio), dando alle inquadrature un’ampiezza di plumbeo distacco. Oppure “qualcosa di meno”, come nella rinuncia a mostrare il cadavere straziato di Iggy (Jamie Bell): limite del filmabile, punto cieco della visione, interdizione morale. Fuori campo. Principi (est)etici che tuttavia non informano la drammaturgia: scritto a quattro mani da William Broyles Jr. e da Paul Haggis, il copione è semplicemente tremendo. Psicologie sbozzate grossolanamente (chi mai potrebbe credere alle brusche variazioni d’umore di Ira o ai suoi rovelli?), dialoghi imbarazzanti (tutti gli scambi tra i tre “eroi” e i rappresentanti dell’establishment – organizzatori della raccolta dei fondi di guerra, ufficiali superiori, politici - sono di un manicheismo allarmante), epilogo melensamente telefonato (dalle parole alle immagini, superfluo ogni commento): le mani pesanti di Broyles e Haggis rischiano di affossare un film che nell’antieroismo e nell’impostazione narrativa non lineare ha i suoi punti di forza, smarrendo quella compostezza antiretorica che al contrario permea le sequenze belliche. Sequenza da ricordare: il cannoneggiamento massiccio preliminare allo sbarco. Sequenza da dimenticare: il dialogo nella camera d’albergo prima del ritorno al fronte di Ira. Prova principesca di Barry Pepper e titoli di coda nobilmente filologici. Doppiaggio autoironico.
Filmato in Islanda (il governo giapponese ha negato le location originali) e tratto dal libro di James Bradley (figlio di John Bradley, il “doc” nel racconto del film), ripercorre una pagina bellica già affrontata da Iwo Jima, Deserto di Fuoco (1949), mentre la parabola dell’indiano Ira, in modo molto più accorato e sentito, era stata già raccontata da Il Sesto Eroe (1961) di Delbert Mann, con Tony Curtis. È davvero filologica, eccellente la ricostruzione di Clint Eastwood della battaglia (basti vedere le istantanee originali durante i titoli di coda, il momento più toccante di tutta l’opera), con spettacolari e realistici effetti speciali in stile Salvate il Soldato Ryan: l’autore ha voluto rispettare anche i volti dei protagonisti originali, facendo un casting di nomi poco noti, giovani e molto rassomiglianti (a scapito anche della recitazione, che non è eccelsa). Diventa una preziosa docufiction nelle dinamiche belliche, non altrettanto elaborata e interessante dal punto di vista umano, di studio psicologico. La sceneggiatura è davvero lacunosa, la regia di Eastwood a tratti oltremodo retorica, incapace di dire/dare nulla di più del suo assunto di fondo (cioè, che una foto può far vincere la guerra; che di eroi, veri o fittizi, una nazione ha bisogno). In un’ottica umanista e non certo propagandistica, Eastwood ha deciso di girare contemporaneamente Lettere da Iwo Jima (molto più riuscito), che racconta lo stesso conflitto dal punto di vista dei giapponesi.