TRAMA
Portogallo, 1599. Il sonno di Maria, figlia di donna Madalena de Vilhena e del suo secondo marito, don Manuel de Sousa Coutinho, è turbato da oscure visioni riguardanti il recente, sanguinoso passato del Paese. Un giorno, si presenta al cospetto di donna Madalena un messaggero proveniente dalla Terra Santa…
RECENSIONI
Nostro Signore dell’umiliazione
Un palazzo silenzioso come una cripta, una camera colma di arredi sontuosi, quasi mortuari, una bambina tormentata dalle febbri della tubercolosi: il sangue e i papaveri danno corpo e voce all’orrendo prodigio dei suoi sogni. Inizia così il nuovo lungometraggio di Botelho, che, partendo da una tragedia portoghese del XIX secolo, esplora un tema del tutto fuori dal tempo, oltre che, per alcuni aspetti, dal mondo: l’istituzione familiare.
Strutturato in un prologo e tre atti, corrispondenti rispettivamente al delirio onirico di Maria e alle tre giornate nelle quali si compie il destino dei personaggi, “Quem és tu?” è costruito come un progressivo zoom: partendo dalla disfatta dell’esercito portoghese si giunge all’abbattimento di un piccolo essere silenzioso, e nell’arco di queste due catastrofi è racchiusa un’amara considerazione sulla fragilità e la misteriosa inutilità delle cose umane, che neppure una speranza metafisica può dissipare. E la frase conclusiva dell’opera, “La gloria si raggiunge solo nell’alto dei cieli”, suona come una beffa crudele, in relazione alle sciagure che suggella.
La sequenza introduttiva, apparentemente gratuita, espone gli antefatti del dramma non solo come trama, ma principalmente come atmosfera: la Controriforma pesa come una cappa su cose e persone, ne guida le azioni, provoca infelicità a catena. Una lunga carrellata, cui fa da contrappunto un minuzioso elenco di mezzi bellici e forze militari, mostra la distruzione dell’esercito lusitano, condotto alla rovina da un re – fanciullo invasato e fanatico.
Secondo Oscar Wilde, ognuno uccide la cosa che ama, ma in questo caso la causa del delitto è un orgoglio insensato: il sovrano determina la rovina del suo Paese per ambizione di gloria e rivalsa nazionale, il nobile dà fuoco al proprio palazzo perché non cada nelle mani dei suoi nemici, i coniugi scelgono di separarsi per sempre in nome di un malinteso senso del dovere e determinano la fine della loro unica ragione di vita. Il fanatismo, tanto laico quanto, soprattutto, cattolico, consuma, fiamma inestinguibile, le speranze di felicità degli uomini, illudendoli al contempo di potere sanare le ferite del corpo e dell’anima.
Arduo realizzare un film così dichiaratamente teatrale (nel sipario che incornicia le sequenze chiave come nell’apparenza del tutto antinaturalistica di quinte e fondali), “parlato” (e che parole!), denso e puntiglioso senza renderlo mortale per il comune mortale che non conosca per nulla l’arte e la letteratura portoghese dei secoli scorsi. Ma non impossibile. Il regista ottiene dagli attori una recitazione pacata ma infinitamente ricca di sfumature, che, come un fuoco non del tutto coperto dalla cenere, sembra quasi spenta ma sorge all’improvviso con una vampata terribilmente viva, a scolpire i caratteri e i moti del cuore con la stessa forza impiegata dalla luce michelangiolesca dell’operatore Elso Roque nella definizione, altamente suggestiva e squisitamente pittorica, dei corpi e degli ambienti.
Certo, la polvere del palcoscenico risulta a tratti soffocante, ma, specie nella seconda ora, la preziosa lettura delle contraddittorie, laceranti, pietosamente sadiche peripezie dei personaggi ammalia anche lo spettatore meno disposto ad abbandonarsi. Il risultato è un film da Mostra non solo del cinema ma di ogni arte, servito da attori di commovente bravura, fra cui risaltano la virginale Patrìcia Guerreiro e l’impassibile Francisco D’Orey.
