Drammatico

ROSENSTRASSE

Titolo OriginaleRosenstrasse
NazioneGermania
Anno Produzione2003
Durata136'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Dopo la morte del padre, Hanna cerca di comprendere la madre Ruth ed il suo passato. La verità si trova a Berlino, nella Rosenstrasse, dove nel 1943…

RECENSIONI

L’Olocausto al cinema: un gelido tema scottante e fin troppo ricorrente, che rischia oramai di ridursi a specchietto per le allodole in funzione di una mezz’oretta di dibattito nelle scuole e qualche minuto di indignazione collettiva (ROSENSTRASSE è uscito in Italia nella Giornata della Memoria). Margarethe Von Trotta impugna le armi consapevole della sua mission impossibile e decide di impostare la pellicola su una tesa rigidezza formale, alternando fotogrammi del presente con immagini del passato ingrigite come fotografie. Una scelta del tutto classica e rivendicata come tale, che per introdurre il tema della perdita apre il sipario su un funerale di rito ebraico; la studiata freddezza del narrato viene esplicata attraverso una rete di riferimenti bisbigliati sottovoce (la Berlino mortuaria intirizzita dal gelo della Storia, i deportati a rischio ibernazione), tessuta dall’autrice con l’intento di rimarcare lo stordente contrasto con la potenza del sentimento interiore. La stessa classicità dell’opera è giocata tutta in antitesi: al contrario del Polanski de IL PIANISTA, che si manteneva rigoroso e corale fino in fondo rappresentando con il suo musicista il flusso stesso della Storia, qui la vicenda impolverata della Rosenstrasse costituisce un autentico contrappasso. La Von Trotta rinuncia ad immortalare il regime nazista sulla distanza del campo lungo, ma sceglie di catturarlo nella sua parzialità, concentrandosi su un singolo evento “miracoloso”: questo viene parzialmente svelato dal flusso ipertrofico del ricordo che, come ogni memoria sbiadita, in fieri appare irregolare e stravolto, ma alla fine si staglia lucidamente nella sua quadratura del cerchio. Un personaggio secondario incisivo: il fratello di Lena, la cui espressione facciale è irrimediabilmente compromessa dalla battaglia di Stalingrado. La regia mette in fila una serie di soluzioni visive ma pur sempre funzionali al contesto (la camera che segue il nascondiglio della piccola Ruth), suggerendo in questa sede un paio di convergenze con l’universo polanskiano (la finestra sulla Storia, senza metafora). Superato lo scoglio della trattazione della materia, ROSENSTRASSE potrebbe risolversi in un unico dato positivo: ma alla regista manca la fantasia necessaria per innalzarsi davvero, limitandosi alla virtù di non far storcere la bocca alla platea. La freddezza sfocia nell’esagerazione rinchiudendo i personaggi in una cella frigorifera (il funerale iniziale è troppo insistito), mentre il film salta a piè pari l’evoluzione dell’adulta Ruth (prima contraria, poi favorevole al matrimonio della figlia… come, quando e perché?) preferendo concentrarsi sulla sua canonica proiezione fanciullesca; l’autrice rimane spesso rinchiusa nella sua scatola narrativa, eccessivamente schematica per affrancarsi del tutto. Di conseguenza raggiungono il sovraffollamento le trovate di scialba trasparenza, mille altre volte sorbite (subite): il giochino del flashback, il confronto passato-presente riflesso sui luoghi fisici tedeschi (Hanna che visita l’attuale Rosenstrasse), il dialogo generazionale madre-figlia e l’impedimento matrimoniale causa religione sono solo le prime che mi vengono in mente. Katja Riemann si dispera in ammirabile scioltezza, Martin Feifel lo fa con una punta di maniera, la giovane Maria Schrader accusa la convenzionalità dello script riducendo al minimo il suo personaggio. Cala la perplessità sulla storia di questa pianista che (rischia di) perde(re) il marito, il pianoforte, la dignità, la piccola trovatella; cosa intende dire la Von Trotta? Che vengano tante giornate della memoria, ma siano dunque celebrate meglio: l’Olocausto è privazione, l’Olocausto è convenzione.