Horror

THE RING 2

Titolo OriginaleThe Ring Two
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Genere
Durata110'
Sceneggiatura
Tratto dadalla sceneggiatura di Hiroshi Takahashi e dal romanzo di Koji Suzuk
Scenografia

TRAMA

Rachel e il figlio Aidan si sono trasferiti nella tranquilla Asheville ma la mortifera cassetta di Samara si rifà viva anche da quelle parti. Poi tutto si fa confuso: i cervi s’incazzano, la gente muore anche senza videoregistratore, i personaggi scompaiono nel nulla. Mah.

RECENSIONI

Dopo il caso di The Grudge, autorifacimento occidentale di Takashi Shimizu, arriva questo The Ring 2 col quale, almeno teoricamente, Hideo Nakata rifà a Hollywood il suo Ringu 2. In realtà trattasi di un remake solo nominale ché i due film, a differenza di The Ring e Ringu, non sono affatto “sovrapponibili”. The Ring 2 si presenta infatti come un ricettacolo di suggestioni nakatiane, che attinge più dal suo bel Dark Water che dal già mediocre secondo capitolo delle adventures in vhs di Sadako. Se infatti la presenza dell’acqua ha un ruolo centrale anche in Ringu 2, la focalizzazione sul rapporto madre-figlio e la storia della “bambina fantasma in cerca di mamma” sono in gran parte farina del sacco di Dark Water. Il regista sostiene che queste tematiche ricorrenti vanno riferite al suo vissuto personale, alla tradizione giapponese secondo la quale la madre, come l’acqua, sono simboli di vita e di morte (gli spiriti sarebbero soliti manifestarsi vicino al mare, ai fiumi e ai laghi), e al teatro Bushido che vede nei “fantasmi vendicativi” una suggestione ricorrente. Il tema dell’acqua è così reso evidente fin dalle prime inquadrature, che (auto)citano letteralmente gli incipit del primo Ringu e di Dark Water: una serie di carrellate e di travelling su un mare oscuro e minaccioso. Si passa poi, con un paio di fluidi stacchi di montaggio, a un “interno notte” che sembra citare invece l’inizio del The Ring di Verbinski e le sue atmosfere da teen horror. Questo l’inizio citazionista, di un qualche vago interesse, ma il resto della pellicola di Nakata è di una bruttezza davvero epocale. L’evidente volontà del regista giapponese di occidentalizzare il suo modus filmandi[1] e una sceneggiatura (di Ehren Kruger) senza capo né coda costituiscono un mix micidiale. La New Wave degli horror orientali sembrava aver portato una ventata d’aria fresca all’interno di un genere sclerotizzato, buono solo per “scherzarci su” a vari livelli di raffinatezza formale e contenutistica (Cabin Fever, Scream, Scary Movie), proprio in virtù di un approccio al genere ai nostri occhi inusuale. La forza dei vari Ju-On, Ringu, Dark Water o del recente Two Sisters[2] risiede infatti in una continua compenetrazione di elementi ordinari e grottesco-orrorifici che, anche a livello registico, rendono difficile catalogare i film in questione come Horror occidentalmente intesi; il ritmo lento, le lunghe digressioni, il quotidiano squarciato da momenti di terrore donano agli aspetti propriamente paurosi nuova linfa, efficacia e credibilità. Nakata ha visto male di contaminare pesantemente questo background con una regia americanizzata che cerca di “applicare” senza successo, ottenendo un risultato inqualificabile: il ritmo si fa più sostenuto ma non è sorretto dal cosiddetto “senso del ritmo”, gli effetti sorpresa sono grossolani (si veda l’apparizione di Samara nell’ambulanza, un vero sobbalzo da drive-in) e per il lato umano della vicenda, che nei migliori horror giapponesi ha vera consistenza tematica, non è mostrato il benché minimo (sincero) interesse. Il film, così, scivola via impacciato e incoerente[3]  senza seguire un filo logico che renda possibile l’immedesimazione/partecipazione dello spettatore al quale non resta che attendere spazientito i titoli di coda. Semplicemente imbarazzante. Si salvano in corner la fredda fotografia di Beristain (La Formula di David Mamet, Blade II) e l’abnegazione di Naomi Watts, mentre il piccolo David Dorfman si conferma attore-bambino di rara antipatia e inettitudine.