Drammatico, Recensione

LA RICERCA DELLA FELICITÀ

Titolo OriginaleThe Pursuit of Happyness
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Durata117'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

“Da una storia vera”, raccontata nell’omonima autobiografia di Chris Gardner pubblicata quest’anno. San Francisco 1981: Chris è un padre di famiglia sull’orlo del lastrico, ha un figlioletto da mantenere e una moglie che, stremata dalla situazione, lo pianta in asso. Il Sogno Americano gli darà una mano…

RECENSIONI

Che Muccino sia un furbacchione è fuor di dubbio, che sia banale ripeterlo anche, ma in qualche modo si dovrà pure cominciare. I suoi film sono sì molto costruiti, pensati per suscitare immedesimazione adolescenziale (Come te nessuno mai), generazionale (L’ultimo bacio) o infine plurigenerazionale (Ricordati di me) ma sono anche ben costruiti. Se ne possono criticare l’artificiosità e la banalità di fondo mascherata da apparente profondità ma è difficile negare che “funzionino” e che rivelino una competente gestione dei tempi e dei modi della narrazione. Muccino sa creare, cioè, continuità drammatica evitando pause e cali di tensione, e ha sempre mostrato una cura registica impersonale ma abbastanza anomala nel panorama italiano. Questo “stile internazionale” ha trovato nel suo esordio americano uno sbocco, dunque, piuttosto naturale: inquadrature mediamente lunghe e mobili, frequente uso del dolly, macchina a mano quando serve e qualche primissimo piano nei momenti giusti, sono le sue (si fa per dire) tipiche risorse linguistiche che tornano in The Pursuit of HappYness senza sfigurare. Ciò che stavolta non gli è imputabile sono soggetto e sceneggiatura, ché lo vedono estraneo. Più o meno. Perché curiosamente questa favola reaganiana a lieto fine, tutta American Dream e amore paterno, è in fondo di mucciniana paraculaggine. Ha la “verità” di fondo che le copre le spalle mentre si avventura nel tragicomico accumulo di piccole disgrazie, ha un tono un po’ Frank Capra che ne rende digeribili i sentimentalismi e qualche macchia sad (la mamma se n’è andata) che intorbida un po’ (ma solo un pochino) un happy end altrimenti troppo limpido. Gabriele Muccino, dunque, aggiunge alla sua filmografia un altro capitolo ruffiano, sì, ma con stile. E vive, per ora, felice e contento.

Hollywood s’è accorta di Gabriele Muccino grazie a L’Ultimo Bacio ma è stato Will Smith, artista dotato con fiuto per il talento, a volerlo a tutti i costi, ad appoggiarlo nelle scelte per location originali, nelle modifiche alla sceneggiatura e al finale. Tutto per trasportare il “neorealismo” (modello dichiarato: Ladri di Biciclette) nel cuore del cinema-business: il regista lo ripaga confezionando uno dei migliori capitoli di Hollywood sul Sogno Americano, poggiato su di una scrittura mai grossolana o stereotipata e sui fatti realmente accaduti a Chris Gardner, qui assistente alla produzione. Il titolo cita Thomas Jefferson ma il film recupera Frank Capra, sfrondandolo delle edulcorazioni ipocrite degli epigoni successivi, tornando al cuore del suo cinema che, in era rooseveltiana di ristrettezze economiche, non prometteva scorciatoie sulla dura realtà (doni che piovono dal Cielo con campionamento da roulette russa) e premiava la caparbietà del singolo. Non c’è alcun ingrediente scontato, gratuito o artificioso nel cammino di questo padre che trasmette al figlio non agi materiali ma affetto e fari morali: il premio eventualmente ottenuto da Gardner è guadagnato e sudato appieno (la Y nel titolo originale al posto della I) e l’effetto immancabile è la commozione, dovuta anche ad espedienti da La Vita è Bella di Benigni (alleviare il disagio del figlio con voli di fantasia). Muccino si mette umilmente al servizio dell’ottimo Will Smith (con figlio Jaden) e del bellissimo racconto, allontanandoli dai modi stucchevoli o proclamati di certo cinema statunitense (anche quando cita Jefferson, la Dichiarazione di Indipendenza e la ricerca della felicità), apportando all’opera il suo più grande talento, quello che sa evocare l’emozione giusta con una breve pennellata, uno sguardo, una scena emblematica, la convivenza impossibile fra tragedia e tenera buffoneria.