TRAMA
Paranoid Park è il nome di un parco per appassionati di skateboard di Portland, in cui si ritrovano gli skater più folli, anime dannate della città, giovani senza tetto, senza futuro, che bruciano le proprie vite sulla pista. Alex, 16 anni, attratto da quello che per molti è un paradiso artificiale, si avventura nel parco, dove accade però l’irreparabile. Una sera, accidentalmente, causa la morte di un agente di sicurezza. Decide di non dire nulla.
RECENSIONI
Skateboard, grafia, cinema: scritture del movimento. Dal gesto al segno, dal segno al frame: non c’è soluzione di continuità tra i tre tracciati semiotici. Travasi di senso scivolano da un piano all’altro, slittano dalla tavola alla pagina, dalla carta alla pellicola. Paranoid Park: luogo della mente, spazio che ignora le leggi fisiche, irride il peso specifico, esalta le curvature psichiche. Come nei “Jardins d’Email” o nella “Closerie Falbala” di Jean Dubuffet, concavità e convessità magnificano l’energia inarticolata, glorificano la plasticità mentale, anticamera del senso compiuto. Paranoid Park è pura fluidità: rarefazione (donde l’onnipresenza del ralenti), sospensione (le lancinanti parentesi videomusicali), celebrazione della traiettoria (le leggiadre evoluzioni della cinepresa). Gli skater respingono aggressivamente la designazione geografica proposta dal detective Lu (Daniel Liu), rivendicando l’appartenenza di Parco Paranoide ad un livello di realtà non cristallizzabile in mappe o cartine. Cartografare PP è vietato, ridurlo a rappresentazione è proibito, significherebbe tradirne l’essenza: il solo progetto di riproduzione possibile è (de)scriverne il movimento. Cinema. Non basta, occorre scartare dalle traiettorie rettilinee, adottare una forma mutevole, prensile, informale. Super 8 e 35mm si intrecciano, a suggerire il movimento incessante di un luogo che è bacino di raccolta di storie, esperienze, esistenze. E morte. Involontariamente, inevitabilmente. Morte di un uomo, quello che si precipita a percuotere con la sua torcia elettrica i fottuti vagabondi che saltano sui treni in corsa. Morte dell’innocenza, quella di Alex (Gabe Nevins) che osa reagire all’aggressione della guardia ferroviaria col suo skate. Vite letteralmente squarciate in due, viscere sparpagliate sui binari e sguardi che si incrociano, disperati, annichiliti. Dislocate, le situazioni si ripetono, carambolano da un piano all’altro, svincolate dal precetto della linearità, assoggettate soltanto al lavorio cerebrale di Alex, faticosamente intento a elaborare il senso di ciò che gli è successo (colpa? responsabilità? difesa?). La colpevolezza si mescola con la fatalità, la tragedia si fa evento casuale, assurdo, inesplicabile: il solo modo per liberarsene passa, ancora una volta, per la scrittura. E ancora una volta, esaurito il suo compito, questa scrittura è destinata a svanire, a bruciare nel crepitio di un senso forse conquistato ma non per questo definitivo. Segni di passaggio: skateboard, grafia, cinema. Finalmente in fuga dagli ultimi due deludenti capitoli della trilogia, Gus Van Sant torna a girare nei liberi territori dell’informale (già frequentati nel devastante Gerry, perla disseccata, inarrivabile e, naturalmente, invisibile).
Premio Speciale per il 60º Anniversario al Festival di Cannes.
È composto di frammenti Paranoid Park: scenari sgranati, implicazioni intraviste, sequenze suggerite. Dopo la celebre trilogia Gus Van Sant firma un’opera colossale e la supera concettualmente: quei film raccontavano di accadimenti tragici, più o meno definiti, dalla pura astrazione (il capolavoro Gerry) fino ai riferimenti contingenti (Elephant e Last Days), scolpiti nella recente memoria della civiltà occidentale. Episodi emblematici di devastazione, ma sempre casi di singole derive. Invece Paranoid Park prende una fonte scritta, il romanzo di Blake Nelson, e la maneggia alla sua maniera (GVS: Ho giocato molto con la struttura della storia) per puntare a un obiettivo quasi ideale: andare alle fonti della corruzione. Il giovane Alex non medita misfatti e non sfoggia tendenze criminali, è solo un ragazzino spaesato che si appresta al Paranoid Park: il luogo dove compromettersi. Così la collana di circostanze quotidiane, dal college alla fidanzata, viene ripercorsa con la solita vansantiana ironia ma letteralmente en passant: particelle seghettate, quadri distorti e situazioni incomplete all’insegna della distrazione. Anche l’incontro con la morte acquista segno grottesco e paradossale nello sguardo del protagonista, a segnalare nuovamente la capriola della prospettiva: la cinepresa non fruga realmente l’animo del ragazzo, bensì le rugose nervature del parco. E’ l’unico mostro che insinua davvero apprensione perché, come ricordano i ralenti mistici che lo perlustrano, alla stregua di una cattiva stella immateriale questo spazio colpisce direttamente i destini e li rovina.
Una materia esplosiva che trova il regista al bivio: in beffardo equilibrio tra narrazione e destrutturazione – abbiamo una trama chiara ma continuano a mescolarsi istanti cronologici, a lasciarsi e riprendersi -, Paranoid Park non rinnega nulla ma è dosaggio consapevole di entrambi. Con sfavillanti caratteristiche dell’autore (la perdizione degli adolescenti, l’inconsistenza degli adulti, l’estetica del brutto – un’altra splendida ragazzina con i brufoli) e almeno una novità rilevante: il ritorno alla fotografia di Christopher Doyle, dopo Psycho. Il geniale cinematographer, anche nel ruolo dello sfuggente zio Tommy, in apparenza suona estraneo alle sue corde ma invece afferra impeccabilmente il discorso: al contrario degli ultimi Kar-Wai, qui la trovata esteriore non resta a sé stante ma suggella una pioggia di momenti narrativi a cavallo tra guizzo concettuale e immagine al potere (il fondo autunnale, il gelido amplesso, i congressi di skaters, da ricordare tutti a partire dalla suprema esibizione sull’erba). Nessuno è mai pronto per il Paranoid Park, si afferma nel film: lecito pensare che anche i due Gerry, gli assassini della Columbine High School e la rockstar suicida Kurt Cobain vi abbiano messo piede. Tutti totalmente sprovveduti.
Sui titoli di coda Strongest Man in the World dei Menomena: I am fused out of iron, iron…
Alex scrive nel suo diario "buttando giù alla rinfusa" (così dice) i suoi appunti; Gus Van Sant aderisce all'estemporanea scrittura del ragazzo e costruisce Paranoid Park (il film) nello stesso modo in cui Alex assembla il suo Paranoid Park (lettera –memoriale -stralcio di scrittura creativa): privandolo di un centro, affastellando i racconti di singoli momenti, senza un ordine cronologico (per tutti: l'incontro col detective che vediamo all'inizio è posteriore a quello collettivo, che vediamo in seguito), ripassando sugli episodi vergati a matita (si badi bene: a matita), cancellando qualche parola, rileggendo il suo scritto, rettificandolo, rimaneggiandolo, riscrivendolo. Il film, come il componimento di Alex, si stratifica, muta e tende a conferire completezza al quadro degli avvenimenti: la scelta simultaneista e leggermente sfasata che era propria di Elephant e Last days si applica perfettamente alla modalità narrativa di questa pellicola, questa volta le è felicemente funzionale. La pratica del remake (Psycho, una vera e propria copia del capolavoro hitchcockiano leggermente - perché volutamente - differente) si ripropone ancora e, come per i due precedenti, si attua all'interno del medesimo film che stiamo guardando (che si fa e si rifà), in maniera leggermente differente, ponendo dinnanzi allo spettatore visioni dei medesimi fatti ambiguamente non coincidenti (cambia anche il sonoro e le musiche, cambia l'umore, la sensibilità, l'angoscia dello scrivente, l'elaborazione interiore dell'accaduto). Non si cerca la Verità, le verità sono tante, la memoria le modifica, la psiche le adatta, i fatti non esistono (esiste chi li narra e quella che vediamo è, per l’appunto, la versione di Alex di ciò che avvenne la famosa notte). Tutto il film risponde a questo assunto relativistico: anche i rapporti di Alex con i suoi amici e le ragazze sono tutti da ricostruire e interpretare; lo spettatore è costantemente chiamato in causa nella valutazione di ciò che è sullo schermo, proposto dittatorialmente dall'unica prospettiva in gioco: quella del protagonista. Il dato interessante del film mi pare soprattutto questo. Per il resto continuiamo ad apprezzare delle ultime opere dell'americano solo singoli aspetti (alcune scene, i bellissimi super 8, l'uso del suono) ma nel complesso Paranoid Park ci pare il solito dissimulato apologo in cui l'autore sembra distanziarsi da una posizione morale, di fatto assumendola tra le righe (comodo), mentre la sostanza si converte in maniera sempre più facile a una retorica del disagio piuttosto superficiale, coi ragazzi che si confrontano, nello skate park, con un reale presunto che, nei fatti, reale non è (niente di nuovo).
Sembrerà paradossale, ma per Van Sant, oggi, sarebbe più rischioso osare nel campo spudoratamentre commerciale (Will hunting e Finding Forrester) che in quello del cinema impegnato e d'autore nel quale, costruitasi una nicchia sicura, coccolato dalla critica tutta, si diverte ad applicare, più o meno felicemente, i suoi stilemi. Non starò ad attaccarlo per questo, ma l'interesse, per quello che mi riguarda, viaggia in altre direzioni.
Paranoid Park è più amichevole di Gerry, Elephant e Last Days. Il dominio del piano sequenza e del long take, in quei film tale da superare abbondantemente la soglia della provocazione, viene attenuato non di poco; gli eterni carrelli a precedere o a seguire che, unitamente all’alternanza tra pan-focus e abolizione della profondità di campo, svuotavano di senso il reale e accentuavano fino a una dolorosa lacerazione l’isolamento e la solitudine dei protagonisti, lasciano il posto a loro brevi citazioni (nei corridoi della scuola come in Elephant, nello scenario naturale come in Gerry e Last Days) che evocano uno stato d’animo o a una condizione esistenziale, costituendo non l’antipatico leitmotiv della rappresentazione ma solo un ingrediente fra gli altri; l’iperbolica deflazione narrativa, con cui Van Sant aveva sfidato la pazienza dello spettatore, è sostituita da una fabula addirittura semi-tradizionale. Non è un’abdicazione in favore del facile spettacolo, ma una differente prospettiva, un’apprezzabile variante nella poetica dell’autore che conferma il ritorno – dopo una parentesi compromissoria – ai propri inizi di audace sperimentatore, nutriti ora d’un più rigoroso acume espressivo.
Ad esempio, viene confermato il rifiuto radicale dell’icona attoriale – inesausta stimolatrice di illusionistiche identificazioni e proiezioni; esso già aveva animato Elephant e, pur muovendo da un punto di partenza addirittura opposto, Last Days: dove il volto della star convocata veniva cancellato per quasi tutto il film; in poco meno di cento minuti tre soli primi piani, dei quali il primo nascondeva il viso coi capelli, mentre il secondo era istantaneo e vitreo; solo alla fine, per la prima e dunque unica volta, un primo piano autentico, intenso, prolungato, gli occhi cerulei che si levavano piano e l’espressione del volto che si rasserenava nella determinazione finale. In Paranoid Park, il volto del giovane e sconosciuto protagonista (di sconcertante naturalezza e bravura, al pari degli altrettanto sconosciuti adolescenti a suo tempo scritturati per Elephant) viene scrutato con insistiti primi e primissimi piani; né più né meno che atti d’amore, ma governati con una dedizione intima e discreta al tempo stesso: il sentimento dominante in Van Sant verso i suoi antieroi è sempre più una tenerezza struggente, che alla fascinazione nostalgica ed estetica per la giovinezza unisce la commozione malinconica e rispettosa per una vitalità fragile e tormentata, espressa in forme assai lontane da quelle stereotipate che il cinema sembra esigere (esemplare su tutte, al riguardo, la scena dell’incontro sessuale); ma questo sguardo, che avrebbe di per sé pericolose implicazioni emotive o voyeuristiche – alle quali anche un regista scaltro come Bertolucci non ha saputo resistere – si esprime in una forma ipercontrollata davanti alla quale lo spettatore non può mai dimenticare l’artificio registico, sempre evidente nel virtuosismo della m.d.p. (il lentissimo carrello in avanti, di presenza così accentrante da distrarre lo spettatore dalle parole nel frattempo pronunciate, che procede dal campo medio fin quasi a sfiorare il volto di Alex), nell’antinaturalismo della banda sonora, nella frequente rinuncia al parlato in favore di una scena muta (l’addio alla girlfriend). Aver tenuto viva l’emozione nell’avvicinare un universo tanto amato e sfuggente, senza prevaricarlo e conservando nel contempo uno stile asciutto e perfino algido (che l’autore sembra aver imposto a se stesso per un imperativo etico prima che formale), mentre l’accompagnamento musicale di Nino Rota in un attimo trapassa dalla dolcezza mesta al controcanto ironico, costituisce un merito enorme, una lezione di cinema umanista e austero.
Se c’è un autore distante dai luoghi comuni e da un atteggiamento moralistico verso gli adolescenti, questi è Van Sant. Non giudica, non dimostra, non perora, ma osserva e ascolta. Il fraintendimento radicale patito da Elephant – a cui l’autore aveva sfidato il pubblico con una serie di falsi indizi disseminati nell’arco del film – oggi non ha ragion d’essere, giacché la materia non è più mostruosamente eccedente rispetto al racconto; sul versante opposto, le accuse di puro esercizio di stile cadono di fronte a una messinscena meno estremistica. L’incerto farsi strada della consapevolezza di fronte alla morte non è condotto in accenti epici o tragici, ma come un lento colpo di scena; non è salutato da toni eroici o trionfali e non è coronato da un duraturo successo, ché anzi il film si chiude sull’impulso di rimuovere il peso di una memoria che ostinatamente si ripresenta alla mente. Basterebbe questo finale aperto, interrogativo, a spiegare la distanza abissale di Van Sant dalle coordinate, brutalmente semplificate da istanze moralistiche, con cui il cinema osserva in genere l’adolescenza.
La visualizzazione del rapporto di Alex con i compagni e con gli adulti non è l’occasione per prediche sulla gioventù perduta o bruciata, o sui torti e le ipocrisie dell’età adulta; ciò che vediamo è invece la difficoltà estrema al contatto. I tentativi dei genitori sono benintenzionati e neppure sciocchi, ma inetti a stabilire una comunicazione emotiva, affettiva; perciò sono circoscritti a velleitarie dichiarazioni d’intenti o a generiche manifestazioni di simpatia, così come le loro figure sono marginalizzate dalle inquadrature o addirittura messe fuori fuoco: una presenza neanche nociva, ma ininfluente (com’era già stato l’universo adulto in Elephant); d’altra parte, ciò che Alex si porta dentro solo faticosamente diventa spiegabile anche a se stesso e all’amica del cuore, che da una brevissima inquadratura capiamo esserne invano innamorata. Anche qui, un esempio ammirevole di asciutta sintesi linguistica: ogni insistenza sarebbe stata superflua, ogni accentuazione sentimentale avrebbe attenuato l’intensità significativa di quel momento.
Analogamente, virtuosismi e omissioni, sovrapposizioni e scarti temporali corrispondono a un’esigente idea di cinema come espressione. Se Paranoid Park non ha le ambizioni teoriche delle opere precedenti, le mette a frutto con coerenza ed efficacia. Si pensi al rapporto con la nozione di tempo. Sappiamo che fin da Drugstore Cowboy Van Sant ha rinnegato il tempo assoluto della fisica classica, la cui dominanza viene suggerita nell’apparenza quotidiana dal sistema del cronometro (ove l’unità di tempo è commisurata alla durata costante di un fenomeno meccanico o atomico). Ha accolto invece l’idea di un tempo che viene continuamente rimodellato dalle diverse soggettività. Si tratta di una riformulazione che procede da acquisizioni ben note nell’ambito delle scienze dell’uomo ma la cui resa cinematografica, ammesso che un regista se ne ponga il dilemma, è problematica. In Elephant la scelta era stata radicale: ogni personaggio possedeva una propria dimensione temporale, perciò l’autore mostrava la stessa scena da punti di vista differenti e vi moltiplicava gli spunti narrativi, in un processo che avrebbe potuto continuare all’infinito. Il tempo diventava un flusso aperto, che poteva scorrere avanti o indietro (i flashback e i flashforward che si sormontano) o lateralmente (non a caso si parlò, a proposito di quel film, di struttura frattale del racconto), a velocità sempre diverse (i frequenti ralenti) e con percezioni differenti; in Last Days le scene ripetute da punti di vista diversi non soltanto non avevano la stessa durata, ma non si ripetevano mai uguali: dettagli mancanti, battute in più o in meno, oggetti fuori posto, movimenti imprevisti, inversioni nell’ordine delle azioni.
In Paranoid Park, essendo concentrato sulla sola soggettività di Alex, Van Sant racconta il suo tempo mentale (rallentato, quasi sospeso nella contemplazione delle magiche evoluzioni degli skater o degli occhi di un’amica) senza porlo a contrasto con le soggettività altrui; non mancano i ritorni sulla propria esperienza (piegati a una logica thrilling, con la ripetizione delle scene che si arricchiscono via via di nuovi particolari) e le sovrapposizioni: i pensieri contrastanti che si accavallano nella sua mente subito dopo l’incidente, i suoni che lo ossessionano (il grido del morente, lo stridio dei gabbiani e altre misteriosi rumori) e donano un iperreale rilievo alla sublime scultura viva costituita dal corpo del ragazzo sotto la doccia, rivoli d’acqua che gli scendono dal volto e dai capelli; prima col rilievo di un’ombra gigantesca e inquietante, poi con una luce gelida che ne illumina quasi con violenza le spalle nude, il corpo umano grida qui la sua inerme fragilità, l’insostenibile solitudine del vivere, l’incomprensibilità e l’indicibilità del proprio essere e del mondo.