TRAMA
New York, 1940. L’investigatore assicurativo CW Briggs ha problemi sul lavoro a causa di una collega da poco assunta. Ma i veri guai devono ancora incominciare…
RECENSIONI
A settembre, un Allen nuovo fiammante: in occasione della Mostra veneziana, il regista newyorchese ci regala, come è sua abitudine, un nuovo gioiello, stavolta più prezioso del solito (quindi inestimabile), che associa alla nota, esplosiva miscela di humour e amarezza, una riflessione non scontata sull'arte come farmaco (inteso nell'accezione greca, cioè benefico, ma anche venefico) della vita.
Il film non è solo (solo?) una brillantissima pièce in costume, allestita con gusto squisito, fotografata da dio (anzi, da Zhao Fei, alla sua terza collaborazione con WA), intessuta di battute luminose e perfide quanto repentine, come smeraldi in un diadema, interpretata magnificamente da un cast di grandi "alleniani", abituali e non (fra i primi vanno citati il "sinistro" Ogden Stiers, la femme fatale Theron e Shawn, fra i secondi l'autoironica Berkley, Aykroyd e la viperina, irrefrenabile Hunt).
"The Curse" è anche una riflessione sul potere demoniaco, "stregonesco", rivelatore dello spettacolo, causa (o semplice pretesto? difficile dirlo) di crimini e misfatti, fobie e sentimenti, che porta alla luce istinti dimenticati o rinnegati a livello conscio. Il talismano di un ipnotizzatore è meglio del lettino dello psicanalista: come nella "Dea dell'amore", l'arte trionfa dove la scienza freudiana neppure arriva. Secondo l'anziano mago nel finale di "Ombre e nebbia", "tutti amano le proprie illusioni, anzi, ne hanno bisogno, come dell'aria che respirano": anche se tali illusioni possono portare ad un passo dalla rovina (e spesso oltre, come in "Oedipus Wrecks"), la gente non riesce a rinunciare al sogno, perché spesso quello che vediamo da svegli è duro da digerire. "La vita non è perfetta, e in più, è breve": meglio godere, fin che si può, del potere della fantasia.
Allen, con questo pegno d'amore alla New York della sua infanzia, quella del cinema hollywoodiano classico che è da sempre suo modello di riferimento accanto ai diletti Fellini e Bergman, conferma di essere un miracoloso ipnotizzatore. Le uniche rughe visibili sono quelle del volto, lo spirito è intatto, velenoso e tenero al punto giusto, capace di un'autoironia che attenua i ben noti furori narcisistici: in fondo, almeno al principio, il maldestro Bogart della situazione annovera tra le sue conquiste solo belle addormentate e vacue figlie di papà. A proposito di Humphrey, come non ricordare che il fascinoso "occhio privato" è da tempo immemorabile una magnifica ossessione per Woody, vedi alla voce "Provaci ancora, Sam"?
Insomma, sarà sempre lo stesso film, come ripetono da decenni alcuni "savi", ma che splendido film. Impossibile, inoltre, non rallegrarsi per la scelta del regista di dirigere se stesso: soprattutto nelle sue parentesi catatoniche, Allen è un prodigio scenico.
Dopo le negative recensioni americane sbarca, puntualissimo per l'anteprima veneziana, l'ultimo Woody Allen ed è una piacevole sorpresa.
Ci sono tutti gli elementi tipici del suo cinema, soprattutto delle ultime produzioni: gli anni quaranta, la città di New York, la musica jazz, un cast tecnico rodato e, soprattutto, una sceneggiatura ad orologeria con battute esilaranti, situazioni brillanti e serrati dialoghi ricchi di humor. Come al solito i personaggi, anche quelli minori, sono perfettamente caratterizzati e lo scontro/incontro tra i due protagonisti (lo stesso Allen e Helen Hunt) riprende la verve delle commedie sentimentali con Spencer Tracy e Katharine Hepburn (cui la Hunt dichiara di essersi ispirata). Come già da qualche anno, a parte la parentesi seriosa di "Accordi e disaccordi", si ride e si sorride con leggerezza.
In molti, critici e spettatori, replicano scontenti al ripetersi di uno schema narrativo che sembra unicamente puntare al divertimento, ma ben vengano commedie così ben scritte e briose. Visti i tempi, un vero toccasana per lo spirito!