TRAMA
Gilberte è sposata con Georges, un ricco capitano d’industria che le annuncia di stare per concludere un contratto importante con un uomo d’affari americano. I guai cominciano quando la donna scopre che quest’ultimo non è altri se non il suo primo marito, della cui esistenza mai aveva fatto menzione a Georges.
RECENSIONI
Parigi si inchina davanti a Resnais (20 sale per il suo film, neanche fosse Matrix) che riesce ancora una volta - partendo dal teatro, dalle sue convenzioni e regole di messinscena ma non assoggettandosi alla logica del palcoscenico, piuttosto usandola a suo piacimento - a concepire l'ennesimo Evento in celluloide. Va dissipato subito il solito equivoco nel quale - come per Mélo o Smoking/No smoking, i due titoli che più si avvicinano a quest'ultimo - si casca: quello che vorrebbe quest'opera mero esempio di pièce filmata. Nulla di più errato: il gioco del regista è quello di aggirarsi tra le dichiarate scenografie di Pas sur la bouche, esplorare un testo con l'occhio del cinema, piegare quello dello spettatore costringendolo a un percorso in cui a dettare legge è lo sguardo nostalgico dell'autore (la memoria, il tempo: Resnais non smentisce le costanti della sua filmografia e forse per questo sceglie di far dissolvere i suoi attori ad ogni uscita di scena, come fantasmi di un tempo che fu). Tutto questo per dire come al cineasta, in questa pellicola, non prema raffigurare la vita attraverso l'espediente teatrale ma interessi semplicemente il Teatro, filtrato dalla sua intima reminiscenza. E' questo Teatro (di ombre - Manuel Billi insiste giustamente sul dato mortuario -) l'oggetto filmico di Pas sur la bouche (a differenza di 8 Donne in cui Ozon usava la commedia teatrale per una dichiarazione d'amore al Cinema) che, proprio perché sondato nella sua essenza e nella sua maniera, non si nasconde, ma anzi si afferma e dichiara spudoratamente allo spettatore la sua natura finzionale-rappresentativa (cfr. gli esterni falsissimi di Smoking/No smoking - opera capitale che parava da moltissime parti -, il décor artefatto di Mélo - di cui questo lavoro è la variazione brillante e musicale - etc.). La fotografia decolorata (splendido il lavoro del fedele Berta), le interpretazioni sottolineate a dovere (l'incantevole cast-feticcio: Azema e Arditi in testa - Dussolier nel trailer francese annuncia ironicamente di non essere della partita -), sono parte di un gioco rievocativo che si disputa sul campo di una vecchia operettaoperina à la parisienne (di André Barde e Maurice Yvain, rappresentata per la prima volta nel 1925), cosuccia amena e fatua, che amena e fatua appare in un film che trascende tale amenità e fatuità: lontano mille miglia dall'essere puro omaggio a un genere o a un titolo, Pas sur la bouche non ha nulla a che vedere infatti con esercizi di stile o con pedanti riesumazioni di un'oggettistica (par)artistica desueta o impolverata, affermando con decisione il proprio carattere di superbo lavoro cinematografico su un pezzetto di memoria e un concetto di rappresentazione originale e profondamente personale, pattinando su un testo sul quale Resnais scivola rispettosissimo, potandolo solo di qualche battuta e rimanendo per il resto ostinatamente e necessariamente legato alla sua lettera. In definitiva non è Resnais ad adattare Pas sur la bouche, è Pas sur la bouche che, pressoché intonsa, si deve adattare all'esigenza cinematografica di Resnais, alla sua impetuosa ma controllatissima (mi si passi l'ossimoro) volontà di esprimere altro: agendo sul valore incommensurable del ricordo, anche collettivo, come in Parole Parole Parole si mette a punto un'operazione su un genere popolare (lì la canzonetta, qui la commedia musicale) in cui il Cinema lascia spazio anche alla riflessione teorica e intellettuale senza perdere in leggerezza; il film vive infatti di un magico brio, momenti coreografici francamente memorabili (la spendente parte centrale) e, nel disinvolto moltiplicarsi di piani, di una gioiosità che i protagonisti restituiscono con evidente entusiasmo (le canzoni sono interpretate dagli stessi attori, tutt'altro che cantanti professionisti - a parte Lambert Wilson, acclamato protagonista di one man show -). Un nuovo, delizioso miracolo firmato Alain Resnais: il regista di maestosi capolavori, da Hiroshima a Marienbad, da La guerra è finita a Providence, non ha nessun timore, negli ultimi anni, a battere le strade impervie di una sperimentazione che si confronta col grande pubblico, correndo il rischio del palese fraintendimento e continuando a donarci piccole scatole magiche che ingabbiano il Tempo.
Da una frivola commedia musicale “iperparigina”, Resnais realizza uno dei suoi film più leggeri e spensierati, una pura messa in scena elegante e lussuosa, la cui complessità è inversamente proporzionale alla facilità del testo. La sua non è tanto una rilettura quanto una riproduzione, una ricreazione mirante a far resuscitare i morti, a far rivivere uno spirito, quello della Parigi anni venti, definitivamente tramontato. Il cinema, dunque, come occhio di necrofilo, non già come morte al lavoro ma come lavoro su ciò che è già morto. Gli attori, ectoplasmi impomatati che ridono e si divertono forse più dello spettatore stesso (quello di oggi, forse non quello che vide per la prima volta lo spettacolo nel 1925 al Théatre des Nouvétés), volano via al suono di ali scroscianti; il décor è un catalogo di parigineserie ammiccante, di buone cose di pessimo gusto. Un film evanescente, minore, comunque piacevole.
Chi è la fantomatica (ex?) signorina Poumaillac che è stata, per breve tempo, consorte dell’americano Eric Thomson? La realtà dei fatti indica Gilberte, attualmente sposata a un magnate della metallurgia secondo il quale la priorità maritale è la migliore prevenzione contro gli infortuni domestici: ma se c’è una cosa che il film di Resnais bisbiglia in modo (apparentemente) bonario, è che bisogna dubitare, scientificamente, della cosiddetta realtà dei fatti. L’amore non è una cambiale (di nozze o di divorzio, poco importa) ma uno sguardo inaspettato e (probabilmente) frainteso, un passo che scivola sulle nuvole, un bacio “disgustoso” e (in rigorosa obbedienza alle leggi di una chimica che s’infischia di tutto e beffa tutti) irresistibile: la bocca saprà smentire le parole dettate dalla forza dell’abitudine e dall’orgoglio del possesso, trovando altri modi (la canzone, stupida e impietosamente veritiera – come in PAROLE, PAROLE, PAROLE… –, in testa) per esprimersi. PAS SUR LA BOUCHE mette in diafana e incantevole scena il teatro e il suo doppio cinematografico [chi parla di “semplice” teatro filmato dovrebbe soffermarsi sull’importanza non solo numerica dei primi e primissimi piani, lunghi abbracci d’estatico languore con cui la macchina da presa cattura le parole, le espressioni, i gesti, gli 'a parte' dei personaggi e persino quello che i personaggi mai oserebbero confessare neppure a se stessi (la malinconia, l’invidia, lo stupore mescolati sul volto di Arlette che ascolta le confessioni della sorella)], si aggira tra i livelli della finzione (il notturno messicano) e vi si perde perché vuole perdersi (e quindi non si smarrisce mai), plasma alchimie di sapore cubista (il settimino che chiude la seconda parte, risolto con un gioco di silhouette fra giardini paralleli e specchi perpendicolari), si dimostra opera d’arte totale (con buona pace di Charley e – perché no? – di Wagner) che ha il vezzo (il tatto?) di offrirsi nelle sontuosamente frivole vesti di un “semplice” intrattenimento.