Thriller

GRINDHOUSE – A PROVA DI MORTE

Titolo OriginaleDeath Proof
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Genere
Durata127'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

1. Stuntman Mike incontra delle splendide ragazze. Le uccide. 2. Stuntman Mike incontra delle splendide ragazze…

RECENSIONI

Lo schema strutturale di Death Proof è di imbarazzante elementarità, ripetizione, con variazione finale, di una medesima situazione: parole, parole, parole, due gruppi di vittime, uno per ogni parte del film, lo stesso killer, prima delitto, poi castigo. Rude ed essenziale, la trama si riduce a un banale canovaccio entro cui esplode l'omaggio filologico, nei contenuti e nelle forme, nella grana e nelle falle delle pellicola, al cinema di genere degli anni '50/'60/'70, quello più amato, quello di ogni serie, purché inferiore. Ritorna alla mente una delle definizioni di pulp che campeggiava sulla locandina di Pulp Fiction:

Pulp
1. una massa di materia informe, molle, umida.

Quell'informità (assenza post-moderna di confini tra generi, tra cultura alta e bassa, tra livelli temporali, unicum senza distinzioni ed eterno presente, per semplificare) assume, qui, declinazioni ancora più consistenti (e non è un paradosso). Ridotta a binaria la struttura, Tarantino irride la tenuta drammatica, alterna sfiancanti digressioni ad accelerazioni violente e improvvise, infischiandosene delle giustificazioni: Death proof è pura libertà espressiva, gioco non-sense di personaggi accennati e mai coltivati fino in fondo, in un ubriaco fluttuare dei punti di vista, che castra ogni possibile psicologismo (si veda la netta doppia-faccia di Stuntman Mike, sul finale) e ogni vago tentativo di immedesimazione, a favore di un'emotività fondata unicamente sull'intensità di alti (gli strappi violenti) e bassi (i momenti di stasi), sottomessi alle leggi estremamente personali di una gerarchia estranea alle logiche narrative comuni. Ne risulta un'operazione di assoluta anarchia, cosl scevra da imposizioni drammatiche da divenire puro delirio feticista, exploitation insistita di corpi femminili, tripudio citazionista, ipertrofia snervante di parole.
Ma non solo. Tarantino porta certe riconoscibili istanze della sua poetica sino al parossismo, trasformando l'omaggio ai grindhouse in un omaggio (cosl insistito da diventare grottesco) a se stesso: così i dialoghi à la Tarantino tendono a una prolissità tanto vacua (e volgare) quanto caricaturale, la presenza di feticci si fa costante, reiterata sino alla parodia, e l'autocitazionismo assume frequenze e densità sconosciute al regista. In questo modo la sua stessa opera diviene referente dell'operazione: vuoi perché inscindibile dal cinema omaggiato, vuoi per consapevolezza dello statuto di classicità raggiunto, per ironico distacco dalla propria produzione o per porre un punto che apra nuove prospettive o che le chiuda per sempre, rassegnato, in questo già visto. Nella sua libertà folle, Death proof svela, con ironico e dissacrante istinto suicida, di cosa parliamo quando parliamo del suo autore: temi e stilemi tarantiniani rilucono stilizzati e reiterati alla nausea, in un'iperbolica autoanalisi a scopo demistificatorio, come se, a torto o a ragione, Tarantino fosse il primo a non prendersi troppo sul serio.
E' questo, in ultima istanza, Death proof: una esaltante superficie ludica sotto cui pulsano, confondendosi, un'autoironica vena di sincerità e una dilagante nostalgia.

Dopo l'obeso Kill Bill, Tarantino ci risparmia il prezzo del doppio biglietto e mostra ancora – in soli 110 minuti – quanto sia bravo a riciclare generi e triturare citazioni, esacerbando tale pratica in un caleidoscopio che sa di pezzo di bravura fine a se stesso; pare infatti francamente sproporzionato il giudizio di chi ravvisa nell'ultima fatica dell'americano un impietoso e beffardo atto d'accusa verso il sistema hollywoodiano (meglio i film del bel tempo che fu, scombinati ma vitali e fantasiosi, che l'inerzia patinata e falsamente frenetica dei blockbuster odierni) o addirittura un manifesto della propria idea di cinema. Ma si sa, le passioni accecanti conoscono solo conferme al proprio trasporto.
Stavolta il genere riproposto è “violenza on the road e belle sventole” secondo gli stilemi degli anni '70, che oggi sono considerati cinematograficamente “mitici” perché un regista di culto vi cerca i propri prestiti. È lo spirito dei tempi. Il risultato è saltuariamente godibile in singoli momenti o sequenze, e nella specularità formale delle due parti in cui il film è chiaramente diviso: non soltanto la prima è notturna mentre la seconda è assolata, ma al montaggio ostinatamente sulle piste degli scambi verbali succedono nel secondo tempo lunghi piani sequenza di 'supremo virtuosismo' (?). Tale struttura induce a supporre un'analogia fra le due parti, e dunque a immaginare una simmetria narrativa, incrementando così la tensione – l'attesa del rinnovato massacro di apparentemente sprovvedute e peccaminose fanciulle in fiore, e dello splatter che vi è connesso – e poi il gusto dello spettatore per essere stato colto in contropiede.
Naturalmente, non v'è traccia – ma non è cosa di oggi – della fulminea genialità dei dialoghi che fiorivano nei primi film tarantiniani (in cui lo sceneggiatore Avary organizzava il narcisismo del regista, altrimenti destinato a dilagare senza rimedio), sostituita da una verbosità più massiccia che pungente. Né il perpetuo turpiloquio basta a tener desta l'attenzione; né l'operazione di calco o di duplicazione d'un genere è troppo riuscita, in quanto i film del bel tempo che fu erano soprattutto pesantemente e chiaramente allusivi, più che apertamente pornolalici; a parte quelli del circuito underground tuttavia molto più generosi col sesso. Dunque, Tarantino non vuole o può seguire con determinazione nessuna delle due strade; se la presunta carica trasgressiva d'un Russ Meyer è stata – dopo l'ubriacatura di alcuni anni fa – prima ridimensionata e infine messa alla berlina (se ne sarà accorto, il buon Quentin?), il mimetismo di quel linguaggio garantisce il plauso dei fan turiferari; l'altra strada, della radicalità dello sguardo, è sempre stata lontana dalla poetica tarantiniana e oggi lo è più che mai. Si consideri a esempio il preteso elogio delle donne che il regista tesserebbe, qui come nel lavoro precedente: a suo tempo ci era parso un abbaglio critico quasi abnorme (la donna/madre si libera del dominio mascolino e delle donne mascolinizzate, e dopo aver eliminato il marito/padre/tiranno si edifica un universo femminile insieme alla sua pargola); A Prova di Morte, con la sua banale vendetta di eroine che parlano a perdifiato di sesso in modo fintamente trasgressivo – il turpiloquio femminile come veicolo passivo di fantasie maschili: un Gola Profonda della parola – e poi rivelano il proprio desiderio delle forme del benessere borghese, sembra confermare la nostra perplessità. Non che vi sia da gioirne; semplicemente, Quentin è un giocherellone quasi sempre gradevole e arguto, ma non basta l'entusiasmo di chi lo ama a renderlo il Propp dei generi cinematografici, o il Godard dei tempi nuovi; ruolo ambìto dal suo citazionismo di marca godardiana ma preclusogli dal suo spirito goliardico, e forse per questo sciamanicamente evocato dal nome della sua casa di produzione A Band Apart; mal ricambiato dallo sprezzo esibito dall'autore francese nei confronti del più giovane collega.
Non mancheranno lunghe analisi certosinamente discettanti su come il regista abbia saputo riciclare le immagini sconnesse, la pellicola di qualità deteriore, le piste audio sfasate, gli inseguimenti a velocità folle su strade trafficate di questo o quel B movie degli anni '60 - '70 (e "del film" di più diretto riferimento: Faster Pussycat, Kill! Kill!). Notiamo solo come in questo bell'esempio di calligrafia dell'insolito – ben diversa, peraltro, dalla demistificazione del linguaggio mainstream – nella forma d'un reperto cinematografico, la dinamica dei tempi e delle attese sia la stessa dei film hard della stagione aurea, prima dell'avvento delle noiosissime maratone dell'era sex on video: lunghe insignificanti conversazioni, gesti inutili inquadrati fino al dettaglio, per far sì che lo spettatore sia sempre più impazientemente eccitato in attesa della prevista e immancabile sequenza erotica; qui, del previsto ma poi negato choc violento. In tale implicito elogio del “non detto”, del “non mostrato”, ci sembra risieda la migliore e paradossale qualità d'un film per il resto tanto rumoroso quanto frigido.

Ringuainata la katana e la magniloquenza stucchevole (e un po’ pasticciona) della saga killbillica, Tarantino abbassa il tiro e fa di nuovo centro. Death Proof è film luridamente cinefilo, cazzuto fino all’ultimo fotogramma, insudiciato da un vigore dell’eccesso che delizia l’intero parco spettatori, dai cultori del trash ai puristi surcigliosi, dai maniaci del revenge movie ai teorici dei cultural studies. Volete corpi maciullati e grovigli di lamiere? Non scarseggiano. Preferite il citazionismo (e l’autocitazionismo) filologico? Niente paura, tra un attacco trascinante di fiati di Franco Micalizzi e adesivi “Pussywagon” rosa non rimarrete delusi. Siete assetati di vendetta? Ce n’è anche per voi, le vittime designate non ci stanno a farsi speronare da Stuntman Mike e si ribellano. Di brutto. Siete invece interessati – ahivoi e ahimè! - alle declinazioni della spettatorialità? Troverete pane per i vostri denti: Death Proof è una pellicola intelligentissima che sposta in continuazione i centri di identificazione, sadicamente urtando e urticando il posizionamento dello spettatore, facendolo sedere su una poltroncina molto molto scomoda, precisamente quella in cui non si può godere il privilegio di sopravvivere. Impossibile simpatizzare troppo a lungo con la femminilità provocatoriamente esclusiva di Jungle Julia, Arlene/Butterfly e Shanna, ecco allora la “protesta virile” incarnarsi in Stuntman Mike, che nel giro di un quarto d’ora si rivela un figlio di puttana spettatorialmente infrequentabile. Tra femmine respingenti e “maniaci veicolari” non si sa da chi prendere maggiormente le distanze: ci pensa il film a scaraventarci 14 mesi più in là e a ricominciare da capo a Lebanon, Tennesse. E a questo giro, scoperte le carte, la sfida è ancora più tosta: stuntman Mike contro le stuntwomen Kim e Zoë (Zoë Bell, una dea felina). Divertimento sfrenato, scatenato, incontenibile. Né sventole scontrose né proteste virili: puro piacere filmico fuori giri. Con un senso del pericolo e della spericolatezza semplicemente irresistibili. Se questo cinema senza centri identificatori forti e senza cinture di sicurezza non vi esalta, siamo tremendamente amareggiati per voi. “Mi hai sentito Butterfly? Miglia da percorrere prima di dormire”.

Il giococinema (di) Tarantino potrebbe anche essere considerato la più innocente delle occupazioni, un divertissement finalizzato al godimento più autoreferenziale, come di fatto, per propria costituzione, lo sono tutte le attività ludiche. Che all’interno di questo giocattolo vi siano referenze di plurimo grado fa parte del funzionamento dell’oggetto medesimo, anzi della sua essenza, per così dire. L’esposizione sfacciata eccedente tracimante di un linguaggio costruito su (o a partire da) linguaggi, fatto di cinemi allegramente dilaniati centrifugati disintegrati e reintegrati appartiene alle regole di tale gioco che trova nella triturazione del Grind, finalmente, la sua più icasticamente esibita quasi definitiva - e per questo ininteressante - giurisdizione. Riesplorare il territorio dionisiacamente fisiologico del grindhouse come epifenomeno tombale nostalgico di un contesto sparito dall’esperienza del contemporaneo (l’irripetibilità organica dei midnight-movies e di un’agguerrita panoplia esploitativa pronta ad invadere inarrestabilmente l’occhio lubrico dello spettatore delle 42esime di ogni urbanità statunitense) per riavvicinarne il desiderio riattivandone l’immaginario, si risolverebbe nell’inanità dell’omaggio riproduttivo (e riproducibile nell’arco di tempo della durata di un nuovo trend), o forse nel piacere preparato in laboratorio di (ri)calarsi in certe mefitiche atmosfere e dimensioni (il fonema Dimension dei fake trailers non crediamo sia stato scelto a caso da Tarantino, Rodriguez e compagnia), fingendo di non sapere che tutto l’odorama di un’epoca è evaporato con quelle notti e quelle visioni. Già per il pubblico italiano, che - giovane o adulto che sia - quelle notti non le ha mai vissute, parte del giocattolo è stata smontata eliminando il fascino del double feature con presumibile effetto decontestualizzante. Rimane l’incontestabile divertimento nel vedere la rievocazione in atto dei John Hough, dei Richard Sarafian, dei Jack Starrett, dei Paul Bartel, paladini di un cinema out e, oramai, over (r)esistente in un mercato sempre meno pluridirezionato, nell’osservare la riesumazione fabbricata metalinguisticamente dall’appoltigliamento cinematografico, nel misurarne il distanziamento dalla mera istanza ripropositiva. Una lontananza che nella sublime scontata falsità dei graffi, delle giunte e di tutto l’armamentario vintage possibile elide e conferma ogni prossimità nei confronti di quel cinema, raggrumata nell’intervento semantico di un meccanismo di doppia seduzione: quella irrevocabile del rapporto “abissale” con l’immaginario, un cortocircuito visivo musicale verbale destinato a implodere all’interno della struttura filmica e quella corollaria iperfeticistizzata delle immagini e dei dettagli all’interno di esse, dalle slick della Dodge Challenger ai piedi di Rosario Dawson, alle silhouette tutte di automobili, donne (automobilidonne), villain etc. oggetti-corpo-immagine che fiammeggiano questo cinema. Una seduzione che si duplica per l’appunto nel suo elaborarsi sfrontatamente nell’immagine (la citazione, il rimando, la metacinematografia spinta, pornografica quasi) e nello sfioramento di un godere della consapevolezza che qualcosa sfuggirà alla cinefilia maniacale dello sguardo oppure al controllo della messa in opera dei metalinguismi, come nella sequenza iniziale che segna lo scarto d’inquadrature tra la sovraesposizione del richiamo a Soldato Blu e l’impudicizia noncurante sfuggente/sfuggita sbirciata abbandonata del dettaglio sul manifesto di Paranoia, nella quale già tutto il cinema di Tarantino resta intenzionalmente inscritto.