TRAMA
Cristoffer, rampollo di una famiglia svedese di industriali, vive a Copenaghen con la moglie attrice. Il suicidio del padre lo riporta a Stoccolma: la madre gli chiede di occuparsi dell’azienda. L’iniziale rifiuto dell’uomo viene seguito da un’accettazione che non trova, però, l’approvazione della moglie. I due fanno un patto.
RECENSIONI
L'eredità del titolo non è costituita solo dal dato concreto di un'industria allo sbando, ma ha anche un contenuto morale e naturale: è soprattutto questo peso immateriale, collegato a una sorta di Fato dal quale è impossibile fuggire, che conduce il protagonista Cristoffer, opportunamente allontanatosi dal vortice di una famiglia ammazzanime, a venirne nuovamente risucchiato una volta che il padre, tirati i remi in barca, ha pensato bene di impiccarsi. L'uomo - al bivio delle ragioni di un impero finanziario in declino, a destra, e dei sentimenti che nutre per la moglie devota, a sinistra - rinnega la scelta che lo aveva condotto lontano dalle fauci genitoriali e riprende le redini dell'attività di famiglia. Il prezzo che pagherà sarà altissimo: l'allontanamento della compagna e del figlio, la convivenza con una vecchia fiamma della quale è tutt'altro che innamorato, il sacrificio di una felicità conosciuta ma coscientemente buttata al vento ('Romeo, rinuncia al tuo nome'' gli recita la moglie, il personaggio che più di ogni altro decifra lucidamente lo sfacelo umano del protagonista). La sua storia probabilmente adombra quella del padre (personaggio che appare in un'unica, significativa scena che dice tutto della prigione dorata nella quale si è rinchiuso): domani forse sarà Cristoffer a pendere dalla corda (il karma è karma, direbbe qualcuno). Il dramma, girato con una camera mobile ai limiti del dogma (il film è prodotto dalla Zentropa di Von Trier), con la consueta, tarata visione 'digitale' di marca danese - grande successo in patria e in vari festival -, parte dell'intento di una descrizione attenta di una fenomenologia e di un ambiente in cui il conflitto striscia e il rasoio del cinismo spezza legami di netto, senza preallarmi e con congenito distacco, ma l'idea di un'analisi dal di dentro della razza padrona meritava l'attenzione e la sensibilità di un Ken Loach liberista e, soprattutto, un'altra scrittura, se non un altro occhio. Se inizialmente, infatti, la figura del protagonista, in evidente scissione tra ciò che sente e ciò che è, viene ben delineata, con tutto il prevedibile corredo di situazioni in tema (sono compresi nel pacchetto pranzi domenicali altoborghesi e quasi nobili battute di caccia), se emerge nitidamente il contrasto tra un Privato delicato e (/perché) felice e un Pubblico che pretende e non fa sconti e che si fa presto feroce e distruttivo, se il momento del passaggio delle consegne ha una strana, seducente epicità (la Famiglia schierata di fronte a una marea di caschi, Cristoffer come un capitano - d'industria - di fronte al suo equipaggio in difficoltà), d'altro canto la pellicola man mano che la vicenda evolve (?) scade sempre di più nel facile feuilleton, inanellando sequenze e situazioni da puro imbarazzo (per tutte: il tentativo di stupro della cameriera, completamente fuori registro). Il parco personaggi ha evidenti ascendenze letterarie, con una madre eminenza grigia che muove le pedine e segna destini con spietata determinazione, ma questo non gli impedisce di scadere presto nello zoo stereotipato di una soap opera a scelta: stesse strategie narrative, stessi cliché, stessa tremenda dialogistica. Il regista affronta il discorso sulle ragioni di un impero, in cui la Famiglia vive soprattutto come serie di quadretti da poggiare sulla scrivania di un ufficio dirigenziale, e sugli autentici valori da coltivare, ma il tema pretenderebbe un altro approfondimento: il tentativo di Fly, per quanto apprezzabile sulla carta, invece, si risolve in un film che di bello non ha nulla e che di Beautiful ha quasi tutto.