Horror, Netflix, Recensione

HIS HOUSE

Titolo OriginaleHis House
NazioneU.S.A., U.K.
Anno Produzione2020
Genere
Durata93'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Rial e Bol sono una coppia di migranti sudanesi che hanno dovuto affrontare un’esperienza terribile pur di scappare dal Sudan del Sud ed emigrare nel Regno Unito. Dopo essere stati posti in un centro d’accoglienza, ai due viene assegnata una casa in cui dovranno trascorrere del tempo di prova rispettando delle regole e cercando di integrarsi con le persone del luogo. Mark, la persona incaricata di seguirli, è gentile con loro ma li tratta anche con estrema sufficienza, rimarcando spesso come la casa che è stata assegnata loro sia perfino più grande della sua e stupendosi perfino che Bol sappia firmare. Dopo una prima giornata felice, nella notte Bol inizia a sentire strani rumori e ad avere accenni di visione. Nelle nottate successive il tutto sembra peggiorare…

RECENSIONI

Il cinema contemporaneo (soprattutto indipendente) sembra aver riabilitato l'orrore come veicolo principale di metafore, apologie morali e critiche socio-culturali. Non a partire da Scappa – Get Out (2017), ma da molto prima. Pensiamo a Denti (2007) per esempio, che ci relaziona sul terrore maschile nei confronti del femminino – e del femminismo – utilizzando come tramite la bizzarra storia di una ragazza afflitta da vagina dentata; o a Drag Me to Hell (2009), che ci ricorda quanto il capitalismo e le speculazioni finanziarie possano essere (letteralmente) mortali. Ad unire i tre titoli, oltre al fatto di fare riferimento ad un mondo “altro” da intercettare tra le pieghe del racconto, c'è un particolare ricorso alla satira e al paradosso, come tacito gioco d'intesa con lo spettatore. Va da sé che l'horror possa essere anche un semplice passatempo per chi desidera solo spaventarsi e, catarticamente, ritrovare i codici e i segni mandati a memoria in decine di altre occasioni. Tuttavia, per avere senso e spingersi oltre i titoli di coda, ci deve essere qualcosa in più, si deve cioè intuire un sottotesto “politico” che racconti le ansie e le paure del quotidiano. Un rompicapo di iperboli ed esasperazioni: quello che vediamo appartiene alla sfera del fantastico, perché deforma il reale ed è in potenza estremamente inquietante e ambivalente. Salvo poi, però, riallacciarsi spesso alla verosimiglianza nello scioglimento dell'intreccio, come per certificare la validità del lavoro svolto e non lasciare nulla all'immaginazione e all'interpretazione.

Potremmo domandarci quanto e cosa sarebbe cambiato nell'analisi di The Witch (2015) se in sede di montaggio fosse stata eliminata la scena conclusiva in cui la protagonista si unisce al sabba di streghe, oppure quanto ci avrebbe guadagnato Noi – Us (2019) senza lo spiegone finale sui doppelgänger e il popolo del sottosuolo. O, ancora, se l'accoglienza riservata ad A Quiet Place – Un posto tranquillo (2018) sarebbe stata la medesima con uno script che avesse reso chiara la natura delle creature cieche ma dall'udito finissimo che hanno devastato la Terra. Sulla linea dell'assurdo e della trasfigurazione del razionale si consuma anche il dramma di His House, esordio alla regia di Remi Weekes presentato al Sundance. Un film evidentemente debitore dei sopraccitati Get Out e Us (e quindi della poetica di Jordan Peele), che si muove costantemente tra esplicitazione e intuizione, suggestione e chiarimento. A funzionare più di ogni altra cosa è l'iniziale dicotomia tra concretezza e simbolismo, in pieno accordo con le regole del new horror. C'è la tragedia dell'immigrazione, dell'atroce viaggio per mare dal Sudan alla Gran Bretagna dei due protagonisti Rial e Bol; ma ci sono anche dinamiche soprannaturali e mistiche, che esplodono nella vita tra le quattro mura del fatiscente appartamento che viene assegnato alla coppia dai servizi sociali per il loro inserimento nel tessuto comunitario inglese.

Sono solo incubi, visioni ad occhi aperti alimentate dall'alienazione e dall'assenza di controllo su ogni minimo aspetto dell'esistenza. L'equilibrio, però, è fragilissimo, e l'accostamento tra svolte in cui la realtà si fa ancora più inquietante (il colpo di scena finale) e riferimenti a demoni / spiriti maligni (nello specifico, Apeth) rischia di lasciare interdetti e di rendere evidente una certa forzatura nella scrittura. A His House non manca il coraggio, soprattutto quello di sovvertire le nostre aspettative; manca forse un po' di voglia di lasciare al pubblico qualcosa su cui ragionare a mente libera, senza paletti prefissati. È lo stesso ostacolo su cui si incagliano spesso i pur notevoli – per abilità tecnica e narrativa – film appartenenti a questo sottogenere: l'incapacità di occultare qua e là qualche traccia, e il bisogno di rendere palese fino all'elementarità la propria struttura a tesi. Così il messaggio arriva forte e chiaro, senza dubbi di sorta (perché la house del titolo siamo noi, come ci ricorda il protagonista: «I tuoi fantasmi ti seguono. Non vanno mai via. Vivono con te. È quando li ho fatti entrare che ho potuto affrontare me stesso.»). A scapito purtroppo dell'immedesimazione, del coinvolgimento e dell'emozione, spesso evocate (il sound design, i jumpscare, i primi piani) ma mai pienamente vissute, tenute a debita distanza come impedimenti per il raggiungimento del proprio obiettivo.