Commedia, Recensione

L’ANIMA GEMELLA

TRAMA

Il giorno delle nozze, Tonino lascia Teresa per amore della cugina di lei, Maddalena. La vendetta della sposa mancata sarà tremenda…

RECENSIONI

Un villaggio scolpito dalla luce e dal vento, immerso nella campagna, accarezzato da un mare d’onirico blu, un universo chiuso e circolare in cui frammenti della moderna volgarità provinciale e televisiva impreziosiscono, per contrasto, il soffio di fiaba che anima ogni sguardo, il minimo gesto: due donne, opposte e (in molti sensi) congiunte, lottano per esercitare un erotico dominio, su un giovane comprensibilmente confuso (ma non del tutto idiota) e l’una sull’altra [questo FACE/OFF stregonesco ha almeno un’esplicita scena di saffica (auto)adorazione, quella in cui la bionda Venere rinasce dalle acque profonde e torbide di un desiderio insanamente soddisfatto]. Rubini torna, dopo IL VIAGGIO DELLA SPOSA, alla favola antica che incanta i cuori e gli occhi e insinua, con semplicità, una morale prevedibile e lineare, ideale coronamento di una novella sfrenatamente barocca (nell’accezione del termine proposta da Luca Ronconi, che considera la fantasmagoria una categoria dello spirito, non una trita imitazione di fasti secenteschi). L’usuale triangolo amoroso dà vita a un dramma arcadico grottesco e fatato, ansioso di affrancarsi dalle sabbie mobili del naturalismo da piccolo schermo (ormai vera cifra caratteristica del cinema italiano, vecchio o rifatto che sia), deciso a osare un puzzle di tessere eterogenee, indizi ambigui, riflettenti raddoppiamenti, tratti naif, tragedie cattoliche (l’incantesimo con contrappunto di pie donne) e divertimenti farseschi, liquidi ingredienti di un filtro dalle potenzialità taumaturgiche. Ma la magia riesce solo a tratti: le varie anime del film (forse gemelle, certo separate alla nascita, ora violentemente contrapposte) non sanno amalgamarsi in una struttura solidamente unitaria (fin qui nulla di male, anzi) e si soffocano a vicenda (questo è già più grave). La ricchezza simbolica della materia e il virtuosismo eclettico della forma, scintillanti in sé, non trovano quasi mai un equilibrio, per quanto fragile e dinamico, e finiscono per evidenziare i difetti (figure non del tutto a fuoco, dialoghi zoppicanti, passaggi non aperti ma involuti) che un’organizzazione meno abborracciata e più caoticamente meditata avrebbe potuto, se non occultare, sfumare. Il matrimonio della strana coppia fantasy/melò è turbato da un’ombra incestuosa (in effetti…) e il film è paragonabile a una perla squisita, trasformata in un gioiello pacchiano da una montatura non brutta ma inadeguata. Adeguatissimi e memorandi, invece, gli interpreti, da Cervi, perfetta nelle amare vesti di una Medea penitente, a Placido, diligente e radiosa, a Venitucci, uomo – (s)oggetto d’insospettata forza (il ricordo de LA STAZIONE non è casuale o vezzoso), allo stesso Rubini, barbiere rossiniano e artefice occulto (la sequenza su cui scorrono i titoli di coda) di una storia che nasce dal sangue e svanisce in una goccia di olio nel mare della mente.