TRAMA
Vita, amori e morte del prode Alessandro, raccontata dal saggio Tolomeo d’Alessandria: dalla nascita in quel di Pella nel 356 a.C. alla guerra contro Dario III Codomano (la vittoria arrise al macedone per merito principale di Parmenione, capo della cavalleria tessala); dal matrimonio con la battriana Rossane alla decisiva battaglia contro Poro, re dello stato di Taxila, ed i suoi elefanti. Morirà avvelenato, preceduto di qualche giorno dall’amante Efestione.
RECENSIONI
Oliver Stone aveva un sogno: dar corpo alle utopie e rappresentare le gesta del re di Macedonia Alessandro III. Oliver Stone finalmente è riuscito a realizzarlo. E' un regista fortunato Oliver Stone. Peccato che, stordito dal budget o forse accecato da un delirio di onnipotenza frutto di un'eccessiva identificazione col megalomane di Pella, abbia smarrito il lume della ragione e non abbia centrato il bersaglio, partorendo un topolino travestito da montagna, un tronfio e prolisso peplum grondante retorica, ideologicamente ambiguo (non convincono la repentina conversione al sincretismo del personaggio, né la retorica e trionfalistica celebrazione del suo operato), non abbastanza brutto per diventare uno scult, non abbastanza kitsch per diventare un cult. Il novello Achille, che parve sfidare prometeicamente le divinità aspirando ad una gloria imperitura, in questa fumosa versione rimane una figurina solo abbozzata: altro che tragedia ellenica, i suoi monologhi deliranti ed anacronistici verrebbero gettati alle ortiche anche da uno sceneggiatore di fiction televisive non particolarmente intelligente. Quanto all'approfondimento psicologico e alla costruzione del carattere del mitico condottiero, non si va oltre i rovelli edipici ed un cenno ad un probabile non superamento della fase anale. La presunta liaison platonica ma non troppo del figlio di Filippo con l'aitante Efestione, suggellata da un mostruoso anellone faraonico, è resa nel più disgraziato dei modi: un tenero abbraccio, una calda lacrimuccia, una languida carezza, un ovvio ed eccessivamente calcato rispecchiamento con gli omerici Achille e Patroclo. Poveri amanti che non 'ostentano' il loro amore... I duetti Colin Farrell/Jared Leto, avvolti nelle loro bellissime vestaglie di seta e truccati come rockettari glam in libera uscita, escono dal mondo del cinema per entrare di diritto nel magico regno di quel (cattivo) gusto che la Sontag, recentemente scomparsa, ha battezzato camp. Se gli sceneggiatori avessero avuto un po' più di coraggio, in barba alla correttezza storica e politica, spingendo il kitsch oltre i limiti del possibile, i docenti di storia antica avrebbero forse storto il naso, ma se non altro ci avrebbero regalato un oggetto anomalo ed accattivante non privo di una generica coerenza. Stone, i cui referenti immediati vorrebbero essere il Gance di Napoléon e il Griffith 'babilonese' con un occhio ai pepla alla De Mille, quindi i kolossal 'intellettuali' da un lato e quelli più modestamente avventurosi dall'altro, pare indeciso su quale strada prendere e finisce schiacciato dal peso delle sue stesse ambizioni, esattamente come l'eponimo peccatore di hybris. Non riuscendo a calibrare le dosi per un efficace resoconto della genesi del mito che riesca ad integrare la Storia in via ipotetica, mediante la ricostruzione/invenzione delle motivazioni intime che hanno spinto il protagonista a condurre una campagna oltre i confini del mondo, il regista affida tale compito al saggio Tolomeo (un ridicolo Anthony Hopkins), che con i suoi siparietti didascalici (prologo, epilogo ed un breve intermezzo, oltre che voce off narrante) dovrebbe colmare i vuoti e caricare di senso le avventure del valoroso condottiero, in sostanza dire a parole ciò che le immagini, 'iposignificanti', non riescono a significare Il ricorso a tale stratagemma è già un'implicita manifestazione d'impotenza.
Per tradurre in immagini le aspirazioni di conquista 'a fin di bene' del giovane macedone, non basta ricorrere alla sfruttatissima e simbolica aquila imperiale che plana sui campi di battaglia, la stessa che svolazzava sul capo di Napoleone nel film di Gance e che segue il protagonista come la nuvola di pioggia il ragionier Fantozzi. Solo nella battaglia finale contro Poro il regista riesce a trasmettere il senso della sfida titanica lanciata da Alessandro, ma il tremendo viraggio in rosso a significare il ferimento dell'eroe fa ripiombare il film sotto il livello di guardia, riassestandolo sulle posizioni precedentemente occupate. Farrell sfoggia muscoli poderosi ma tra pesi e bilanceri pare abbia disimparato a recitare, dal momento che nei panni del biondo re si limita ad arricciare il naso un paio di volte, ad aprire e chiudere le narici comme il faut, inaugurando l'arte della (non) recitazione cinghialesca. Il Filippo di Val Kilmer sembra un avo di Boris Karloff, Dario III un incrocio tra Raz Degan ed il comico genovese de Le Iene. La Jolie è l'unica a non perdere la faccia: la sua Olimpiade contornata di serpenti è l'unica ragione per cui si potrebbe accettare di sorbirsi tre ore di pistolotti inascoltabili e battaglie viste (girate e montate nella medesima maniera) mille volte. Le stucchevoli musiche di Vangelis, inoltre, gridano vendetta al cielo: al confronto, quelle di Momenti di gloria paiono di rimarchevole sobrietà. Sapevamo che Oliver Stone non ama andare troppo per il sottile, che detesta le sfumature, che 'grida' e non sussurra, che nei suoi film uno 'stacco' è un 'attacco', un colpo di pistola ai danni dello spettatore, una pugnalata alle spalle. Il suo stile barocco e pompier tocca il fondo laddove avremmo sperato potesse raggiungere, nel bene e nel male, il suo acme. Abbiamo scoperto che Oliver Stone e l'epica sono due concetti per nulla assimilabili e che l'opera di una vita, per dirla con Pasolini, spesso basterebbe sognarla soltanto.
Il regista più sanguigno di Hollywood e l'uomo più ambizioso che la storia ricordi. Sembrava un incontro inevitabile destinato a fare scintille, invece l'"Alexander" di Oliver Stone si perde tra particolari kitsch, grossolanità e scelte visive di dubbio gusto, senza, tra l'altro, che la complessa personalità del condottiero macedone pungoli con forza lo spettatore. Stone non è mai andato troppo per il sottile, ma la sua veemenza, l'impeto della sua visione, hanno spesso prodotto un cinema viscerale, capace di toccare in modo provocatorio nervi scoperti e di solleticare l'occhio non dimenticando la sostanza. I rischi evidenti di un punto di vista così possibilista, ma ruvido, trovano in "Alexander" un discutibile apice, in cui una logorrea sfinente, sermoni didascalici, personaggi sovraeccitati ed enfatici ralenty si danneggiano vicendevolmente. Purtroppo il trash è sempre dietro l'angolo. Basta il noioso prologo per rendersi conto che qualcosa non funziona. Un nonnino canuto si aggira su un set che pare "Fantasilandia" in chiave gay, con efebi scrivani, maschioni muscolosi, ciondoli rubati a un robivecchi e cieli azzurri con ancora la scia di pixel lasciata dal cursore. La carta geografica a mosaico non sfigurerebbe in una sauna di Igea Marina e il fascino di Anthony Hopkins non può che naufragare in tutto ciò. Il problema è che ogni sequenza, anche la più drammatica, contiene sempre qualche dettaglio fuori posto, in grado di infiacchire il mito. Che sia una barba posticcia un po' storta, un trucco troppo marcato, una vestaglia trasparente modello "Priscilla" sopra l'armatura, una parrucca caricaturale, l'occhio ha tutto il tempo di soffermarsi sulla cartina di tornasole di un baraccone che pare imbastito alla bell'e meglio e in economia (a dispetto dei costi di produzione miliardari dichiarati). Non aiuta l'eccesso di primissimi piani, la cui rapida contrapposizione lascia alla fantasia dello spettatore l'onere di dedurre la dinamica dell'azione: il giovane Alexander è al cospetto della madre Olympia, arriva il padre Filippo II completamente ubriaco e si butta con violenza su Olympia. La sequenza è mostrata attraverso un montaggio frenetico in cui le smorfie degli attori si alternano a serpenti scattanti e dettagli di scenografia; i fotogrammi si succedono nel caos più totale senza che gli eventi arrivino con chiarezza o, perlomeno, con sufficiente capacità di astrazione. Discorso analogo per le scene di battaglia, la cui presunta epicità è rovinata dall'esagerata frammentazione. A peggiorare le cose interviene la fotografia di Rodrigo Prieto, incerta tra cinema verità e telenovela, comunque incapace di rendere credibile la finzione. Per tacere, poi, dell'uso dilettantesco dell'informatica, con effetti digitali, che siano fondali o virate dall'alto, davvero orribili. Anche la sceneggiatura pare soffrire dello stesso difetto che compromette l'impatto estetico del film: la mancanza di organicità. La narrazione si sofferma infatti su alcuni momenti della vita di Alexander e li sviscera allo sfinimento, ma finisce per affiancare eterne scene madri senza averne creato a sufficienza le premesse. La proverbiale voglia di scuotere le coscienze di Oliver Stone non trova quindi adeguato rilievo nel racconto e la necessità di arrivare a un pubblico vasto ammorbidisce anche le possibili provocazioni. Basta vedere come sono trattati i costumi sessuali dell'epoca, con una omosessualità esibita a mò di teatrino ma mai approfondita, tanto che gli incontri tra Alexander e l'amato Efestione scelgono abbracci virili piuttosto che morbidi baci. In mezzo a cotanto, vacuo, fragore gli attori cedono con generosità alla smodatezza dei personaggi: Angelina Jolie è fin troppo in parte come Olympia e Val Kilmer gigioneggia come richiesto dal copione; quanto a Colin Farrell, crede fermamente nel progetto, e si vede, ma pur nell'espressività che lo contraddistingue non ha il carisma richiesto dalla parte e soccombe, come il condottiero a cui dà vita, a un'ambizione smisurata. A sua difesa bisogna però riconoscere che essere credibili con un bulbo ossigenato come quello esibito è impresa, quella sì, davvero kolossal!
Oliver Stone non è un regista che ami le sfumature, o i sottintesi. Il coraggio delle scelte tematiche che, anche in questo film, lo contraddistingue si accompagna a una pesantezza di tocco irritante, e tale da compromettere sovente l'esito artistico. Talvolta, quando la sua indubbia capacità di manovrare l'armamentario della retorica cinematografica viene piegata a un'elaborazione consapevole di quella sintassi, si apprezzano momenti finanche geniali; più spesso il manicheismo del regista, la volontà di dimostrare pedissequamente i propri assunti, la necessità di sottolineare quanto gli sembra evidentemente poco chiaro a spettatori concepiti evidentemente come poco perspicaci, la concezione più chiassosa che profonda prendono il sopravvento, costringendo lo spettatore a spettacoli ove la monotonia degli accenti e la monoliticità delle psicologie incombono sull'incessante dinamismo del narrato e sulla varietà delle figure, e la delusione subentra all'iniziale entusiasmo. Alexander è esempio probante di quanto abbiamo detto: c'erano tutti gli ingredienti per un grande film in cui la potenza della visione d'insieme e il fascino della rievocazione storico-leggendaria si coniugassero ad alcune ricorrenti ossessioni tematiche; eppure, l'insieme funziona solo a sprazzi, ed è comunque funestato da una colonna sonora tonitruante e invadente, che frastorna già al primo minuto e non lascia tregua fino all'ultimo: in una parola, tremenda, e tale da costituire un pesantissimo handicap. Tuttavia, i momenti d'interesse e di fascino non mancano.
Innanzitutto vengono rispettate, con alcune clamorose imprecisioni (si parla di miglia e si scrive in caratteri greci ma in lingua latina o addirittura inglese), le coordinate storiche d'insieme; precisazione d'obbligo, ove trionfi come in queste stagioni la moda del kolossal che sotto le mentite spoglie pseudo-storiche ci ammannisce stucchevoli soap-opera, soltanto con le tuniche a sostituire gli abiti dei ricchi e potenti d'oggidì, ideologicamente reazionarie e dalle improbabili parentele col soggetto storico preso a pretesto. Ecco dunque squadernate dinanzi ai nostri occhi le non trascurabili differenze fra le contigue culture dei Greci sottomessi e dei dominatori delle montagne; il carattere militare e feudale della società macedone, con il consiglio regio in cui Filippo e, almeno all'inizio, Alessandro sono quasi dei primi inter pares; il coinvolgimento - mai provato ma attendibile - della regina Olimpiade nell'assassinio del marito; il micidiale meccanismo di battaglia costituito dalla falange macedone; i due grandi errori - uno tattico, lìaltro strategico - del giovane condottiero nella fase finale della sua avanzata verso oriente; le rivalità e le ostilità reciproche fra i luogotenenti, che diverranno i feroci e interminabili conflitti fra i diàdochi. Inoltre, le linee essenziali del disegno politico e culturale che una tradizione idealistica e idealizzante ha attribuito ad Alessandro sono riprodotte con chiarezza un poco didascalica ma di discreta efficacia: il sogno universalizzante; il rispetto per le culture altre (sacrifica in Egitto al dio Api e al dio Marduk in Persia) e la loro perseguita mescolanza - anche attraverso i matrimoni misti - con quella ellenico-macedone; il tramonto della distinzione fra dominatori e vinti, ossia la drastica riduzione e, in prospettiva, l'eliminazione dei privilegi e degli abusi di cui i popoli conquistatori sono sempre munifici dispensatori a beneficio di se stessi; la progressiva adozione dei costumi orientali, anche in senso letterale (ed è, questa trasformazione graduale ma continua del re guerriero in monarca divinizzato di fronte al quale è d'obbligo la proscinèsi, un elemento reso con bell'impatto visivo). Infine, il crescente distacco dai consiglieri, la solitudine ogni giorno più accentuata nell'inseguire un sogno di grandezza - la maligna vertigine del potere non manca mai di sortire i suoi effetti - che non tiene conto dei morti, della stanchezza sfibrata delle truppe, del fatto che nessuno a parte lui è spinto dalla necessità di tenere vivo l'orgoglio della discendenza d'Achille. Orgoglio, vertigine, solitudine, crudeltà, vergogna: sono le coordinate entro le quali Stone svolge da sempre il suo discorso sul Potere. L'ambizione magnanima si trasforma ineluttabilmente in tormento assillante, compulsiva mania, egocentrismo che conosce lampi di delirio. Il Potere divora sempre, come Saturno, i suoi figli, i suoi stessi strumenti terreni: i grandi o coloro che si pretendono tali (come Nixon), la cui ùbris li ha spinti a smarrire il senso della misura e quello della realtà. La loro audacia di pensiero e di sguardo si traduce così, infine, in cupa ed esagitata inconsapevolezza ove pure aleggia ancora, misteriosamente, un sogno di prosperità, di armonia e giustizia (secondo le concezioni del tempo: cose come democrazia o parità fra i sessi sono ovviamente fuori questione, per il Macedone); e la scena in cui il re arringa l'esercito stremato, cercando di esaltare i soldati con una privata ossessione di gloria e tacciandoli di viltà se non oseranno correre a uccidere e a farsi uccidere, ancora una volta; o quella dello scontro fatale con Clito; o quella in cui fronteggia sospettoso ed esaltato lo scetticismo dei collaboratori, conoscono davvero l'alito della follia (e qui Colin Farrell attinge, se non un brivido, almeno un soprassalto tragico).
Infine, lo scioglimento drammatico della morte; la congiura dei generali è fattore romanzesco, ma cosa avremmo pensato e fatto noi, di fronte a un sovrano che ci dice che tutte le religioni sono ugualmente valide, che i vincitori non sono superiori ai vinti, che il nostro sistema di governo va rivoluzionato, che il tempo del bottino e delle prede - dello sfruttamento di un popolo sull'altro - deve cessare, che ricchezza e potere vanno condivisi con coloro che sono non già barbari, bensì genti di antichissima e nobile civiltà, che dobbiamo mescolarci con loro perché siamo pari a loro, anche se profondamente diversi, e che dalla nostra con-fusione solo del bene potrà venire? Si è detto dei motivi d’interesse; ma altrettanto se non più forti sono i motivi di perplessità. Li abbiamo illustrati in apertura e sono quelli tipici di fronte alle opere di Stone, cineasta di debordante personalità ma il cui spinto narcisismo – pari al vittimismo, a giudicare dalle interviste rilasciate in occasione del lancio del film in Italia – è fonte di scarso autocontrollo. Così, v’è ovunque un eccesso di tono, in questo Alexander (che non si capisce come mai i distributori non abbiano tradotto in Alessandro, o retrotradotto in Alèxandros). Gli effetti emozionanti non mancano, si capisce; in questa chiave, abbiamo già detto del parossismo che si impadronisce del re, spingendolo a scagliarsi col suo cavallo contro gli elefanti del re indiano Poro: vera immagine di uno spirito la cui sfida non conosce umano limite, e che possiede la grandezza della sua follia, ma anche della sua sconfitta inevitabile e consapevolmente cercata. Non v’è infatti sogno troppo grande, per una coscienza perpetuamente inappagata e a cui fu concessa in sorte la forza di muovere gli eventi: come lui stesso dice a Tolomeo sulle vette innevate dell’Hindu-Kush, “ogni confine che supero cancella in me un’illusione”. Ugualmente, la soggettiva che vira al rosso ogni colore per dire la psiche stravolta dal dolore del re colpito da un dardo nemico, ma anche la repentina consapevolezza che nella Storia – e nella sua storia – tutto è sangue, è un momento di efficacissima sintesi formale. Tutte le scene di battaglia sono comunque realizzate con energia, senza arretrare di fronte alla furia e al macello immane della guerra; aspetto solitamente sterilizzato dai film di moda in un generico bailamme, che solo nel concedere il beneficio del primo piano a qualche protagonista si consente il lusso di mostrare il sangue dell’eroe di turno, mentre tutti gli altri restano manichini, magari digitali, senza vita. La lezione di Malick e Spielberg è stata insomma ben appresa. Ciò che stona, e parecchio, è la già ignominiosamente menzionata colonna sonora. Un musicista più incline all’uso di mezze tinte e nuances espressive, avrebbe giovato non poco al film e in particolare alla resa delle scene di guerra; temiamo però che la scelta di Vangelis sia stata pienamente conforme agli intendimenti del regista, e il nostro pensiero va con somma nostalgia all’accompagnamento musicale scelto da Kurosawa per commentare, in Ran, l’assalto al castello ov’è ospite il principe Hidetora. L’altro dato che inquina per ogni dove la pellicola è la necessità di chiarire, ripetere, rimarcare, gridare quanto viene mostrato con pur invidiabile chiarezza: nella scena in cui il bambino doma Bucefalo, ad esempio, la magniloquente ridondanza della m.d.p. di Stone e la musica si sommano per un effetto francamente insopportabile, che non si perdonerebbe neppure al Cimino dei giorni migliori. Ma sorte non diversa spetta alla definizione dei personaggi: a titolo di esempio, sui consideri la figura di Olimpiade, serpentesca e ferina, cattiva e possessiva come nessuna; essa trova in Angelina Jolie un’interprete così partecipe che per voler manifestare sempre il massimo della diabolicità finisce col non esprimere più nulla, bloccando l’espressione in un ghigno a sguardo serrato e labbroni spianati che giunge dappresso al ridicolo. Involontario, purtroppo. Ma è tutto l’impianto drammaturgico a essere monocorde; ed esso incide in modo particolarmente pesante, perché Stone vi fa ruotare attorno gran parte della sua lettura dell’avventura di Alessandro. Analogamente all’ultimo Visconti e a quanto egli stesso aveva tentato – con ben altri esiti – in Nixon, qui Stone psicologizza la storia, anziché storicizzare le psicologie come sarebbe preferibile; ma se Visconti possedeva l’arte del melodramma, e sapeva infondere una fosca e universale potenza a drammoni famigliari, Stone si trova a mal partito nel rappresentare il groviglio psicanalitico di contraddittorie passioni famigliari che avvince Olimpiade al figlio e Alessandro a lei e al padre.
Dobbiamo peraltro riconoscere che anche sotto questo profilo ci sono momenti riusciti; in particolare, la discesa di Filippo e di Alessandro bambino nelle grotte ove sono dipinti antichi miti sanguinosi (Medea uccide i figli per vendicarsi dell’amore tradito da Giasone, Prometeo è punito con eterna sofferenza dall’invidia degli dèi, Eracle impazzito scaglia nelle fiamme i tre figli, Edipo si acceca dopo aver compreso l’orribile significato riposto delle sue azioni); scena che tornerà come un incubo e una premonizione alla mente combattuta del condottiero, a seminarvi il dubbio che la lotta dell’uomo per superare le costrizioni della natura e i ferrei meccanismi della società e della storia, per edificare un mondo nuovo e migliore, sia solo un’illusione beffarda, un inciampo della vista in nome del quale siamo capaci di sacrificare ogni bene, ogni scelta. Così aveva udito, incredulo, dall’amico Efestione: “Le città che costruisci sono come te: attirano gli uomini per renderli schiavi”. Infine, un aspetto che ha suscitato scalpore oltreoceano, e che interessa come ulteriore fattore di incostanza e disuguaglianza estetica: Stone ha deciso di prendere di petto l’omosessualità o quanto meno la bisessualità del protagonista. Utilizziamo convenzionalmente, è chiaro, categorie del tutto inappropriate a comprendere la sessualità del mondo greco-macedone, in cui non v’era alcuna contraddizione nello sposarsi per generare un erede legittimo continuando a seguire le proprie preferenze erotiche, le quali oltretutto includevano esplicitamente una forte componente intellettuale e di comunicazione spirituale che noi siamo per lo più indotti ad occultare o sublimare.
Dunque, la franchezza con cui il film mostra le generose abitudini sessuali di Alessandro è ampiamente meritoria, dopo Troy e in tempi ove imperversa la morale bacchettona dei Bush e - per fare un salto a casa nostra - dei Buttiglione, dei Tremaglia e dei Rutelli. Tuttavia, si percepisce chiaramente che il regista non è a suo agio, finendo col dire troppo e troppo poco.
Troppo: l'insistenza con cui viene posto in primo piano il rapporto col personaggio peraltro irrilevante di Bagoa - storicamente un consigliere eunuco, qui un ballerino dalle virili e dolci fattezze - rientra in una strategia della saturazione di cui si sentiva il bisogno qui ancor meno che altrove. Troppo poco: nel rapporto col bell'Efestione - un Jared Leto che limita la propria prestazione a una serie di primi piani a occhioni sgranati e chioma scarmigliata - la passione erotica viene integralmente sostituita dal cameratismo soldatesco, dalla virile fratellanza, dall'amicizia fra compagni di gioventù: profili inidonei a esaurire la complessità di una relazione affettiva privilegiata come quella che il regista pretende di esibire. Quando poi i due parlano del reciproco amore, il dialogo è quanto di più sciatto si possa ascoltare; a parte la banalità dei concetti espressi e il richiamo al mito amoroso di Achille e Patroclo (ben documentato già in epoca classica dai Mirmidoni di Eschilo), il trasporto emotivo è esteriore, puramente verbale; un effetto a freddo e poco riuscito è pure l'addio fra i due amanti - oltretutto improbabilissimo, per quanto abbiamo detto - la notte in cui Alessandro si appresta a incontrare la novella sposa Rossane. Infine, quando i due si abbracciano - senza mai baciarsi, il che è perlomeno strano - sembrano, pardon, due stoccafissi. Eppure, benintenzionato e goffo come il classico elefante nella cristalleria, anche esplorando questa tematica Stone ci riserva una grande zampata: sul letto di morte di Efestione, Alessandro non sopporta la visione dell'amato morente, non sopporta la propria impotenza né è capace di trovare e recare conforto se non rifugiandosi nel sogno di gloria imperitura per il quale ha vissuto: si allontana dal capezzale, volge le spalle a Efestione, parla di nuove imprese e nuove sfide, di nuovi confini da superare. La propria ossessione è il rifugio contro il dolore che si rovescia tutto intero su di lui, un giovane che si credeva protetto dal proprio spirito epico, ed è disarmato e nudo di fronte alla vita e alla morte, e alla loro suprema inutilità. Un momento toccante in un film fortemente irrisolto, che sconta il peso della propria ambizione ma lascia trapelare squarci di ottimo cinema: l'opera di un retore dal grande e scomodo talento, troppo spesso succube dei propri fantasmi e della propria vanità.
All’uscita, polemiche sull’insistita bisessualità di Alessandro e sugli errori storici insiti nei dettagli: Oliver Stone incarna il personaggio come una rockstar trasgressiva e nel segno del Caos, come il Jim Morrison di The Doors, come il suo cinema che, da sempre pervaso da simbolismi epici e mitologici, ora affronta il “mito” vero e proprio, scegliendo un personaggio che rappresenta alla perfezione il suo ideale di libertà assoluta dalle regole e di convinzione nelle norme morali (ritorna anche il tema della sofferenza del complesso edipico). L’elemento più curioso, e di cui pochi si sono accorti, è l’essere un rifacimento non dichiarato di Alessandro il Grande di Robert Rossen, soprattutto nella prima parte (il film del 1956 si concludeva con la sconfitta di Dario, Stone va oltre), con una variante essenziale: Rossen mostrava un Alessandro complice di assassini a Corte ed ambizioso, invasato; Stone preferisce il santino. Il valore aggiunto sono le scene di battaglia con, in primo piano, le strategie e la grandezza del condottiero, assenti nell’altro film, ma la fretta di farlo uscire prima di una fantomatica versione diretta da Baz Luhrmann (che poi non c’è stata) ha portato Stone a riprese e montaggio poco ponderati. Il regista ha cercato di rimediare con una versione homevideo l’anno successivo (45’ minuti in più che recuperano violenza e scene omosessuali tagliate dai produttori) e un “Alexander revisited: the final cut” (220’) del 2011, dove l’opera cambia volto: “La mia vera versione, vado avanti e indietro nel tempo per meglio illustrare il suo percorso interiore come figlio, poi come uomo, inserendo le scene d’amore con l’eunuco Bagoas e infine come condottiero, dando spazio alle scene di battaglia di Gaugamela e di Multan”.