TRAMA
Rimasta vedova, Catherine si trasferisce da sua figlia. La convivenza non è semplice: occorre trovare una nuova sistemazione.
RECENSIONI
L’ultima opera di Chantal Akerman passata sugli schermi italiani, LA CAPTIVE, ha “goduto” di una visibilità tardiva e a dir poco ridicola (a Bologna è stata proiettata la bellezza di tre giorni consecutivi) e questo DEMAIN ON Déménage non ci risulta (ma speriamo di sbagliare) nel listino di alcun distributore nostrano. Ciononostante, il cinema della regista belga continua ad affascinare per l’inventiva della messinscena, la delicatezza dei toni, l’irrefrenabile antinaturalismo che pervade ogni inquadratura. Il film riprende le tematiche de LA CAPTIVE (il dolore d’amare, il peso del passato, la fatale separazione) e le usa come telaio su cui ordire una commedia tenera e un po’ macabra, imbevuta di Ionesco, Beckett e Chaplin. Protagonista è la giovane Charlotte (la bravissima Sylvie Testud), scrittrice su commissione incapace di produrre un libro erotico: la nuova convivenza con la madre, fresca vedova avvinghiata alla valigia del marito, sarà, nonostante le premesse non proprio incoraggianti (i danni materiali della sequenza iniziale, una gemma slapstick), il sigillo di una rinascita. Dopo un’ouverture che è limpida dichiarazione d’intenti (il piano sospeso nel vuoto è un modellino contro un cielo di carta, ed è lo sguardo ansioso, quindi sollevato di una luminosa Aurore Clément a indicare il peso di quello che passa sullo schermo), il film presenta un prologo e un atto: se il primo sussurra con “assurda” malinconia le parole (mai) insensate di un lutto sommerso, il secondo le riprende, le varia e le (con)fonde con la stessa verve impiegata da Charlotte (palese doppio della regista) nello stendere il suo romanzo [in teoria serio(so), comico nei risultati] a partire da pennellate auto ed etero biografiche, schegge di conversazione, fogli d’album, passeggiate in campagna. Negli spazi dell’appartamento (da bambola) a due piani si respira il profumo dei fiori (artificiali) e s’indugia volentieri in una nuvola di polvere da palcoscenico che inebria e non soffoca: merito di uno script felicemente folle, una regia sobria e scatenata e un cast di contagiosa solarità. Una delizia che il pubblico italiano dovrebbe almeno poter assaggiare (visti i rifiuti tossici che deve abitualmente mandar giù).
