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TRAMA
Tre Regni: Inferno, Purgatorio, Paradiso.
RECENSIONI
NOTRE MUSIQUE non inizia: deflagra, supera i propri confini “naturali” (il cartello indicante il numero del visto ottenuto dal film) con immagini brillanti e insanguinate. Una voce infantile e un ossessivo martellato pianistico ci guidano attraverso un’orgia audiovisiva in cui frammenti eterogenei (archivio, reportage, film di guerra, western, fantascientifici) scorrono frenetici: gli uomini, accomunati solamente dalla violenza, rifiutano ogni tentativo di dialogo. Un vento barbarico (la prima frase che ascoltiamo è di Montesquieu, a proposito della caduta dell’Impero romano) sconvolge il Pianeta. Stragi di massa e masse di stragi, grappoli di rappresaglie (accompagnati da rivisitati riferimenti evangelici): la morte si configura come l’unico modo di esistenza (ancora) possibile. Lampi sublimi(nali), momenti di buio totale in cui l’occhio resta spalancato in attesa del peggio (e non viene mai smentito). Ma la follia sembra spegnersi per un istante. Una fotografia, una scritta: do you remember Sarajevo? I volti di tre giovani. Un dialogo è finalmente possibile?
Sarajevo, gli Incontri Europei del Libro: persone di diverse nazionalità incrociano le loro esistenze. Spiccano JLG, invitato per una conferenza (credevo che lei facesse dei film, gli dice il suo interprete), e Olga, una giovane giornalista cosmopolita (Egitto, Francia, Stati Uniti) di origini ebraiche, ossessionata dal conflitto palestinese. Una biblioteca sventrata dalla guerra, un tempio di simboli viventi in cui i confini fra osservatori e osservati si fanno sempre più labili, in cui la voce degli oppressi risuona nella lingua dei vincitori: solo Euripide ha potuto cantare il destino dei vinti di Troia (e gli “Indiani” parlano in inglese). Legami spezzati (il ponte di Mostar), separazioni fatali (campo/controcampo, realtà/fantasia, vittime/boia), il sapere umano incenerito, tramutato in una polvere facile preda del vento. La guerra fra il testo e l’immagine: la disfatta dell’immagine, divorata dal testo. Ciononostante, il trionfo divino dell’icona: nessuna profondità, nessun movimento. L’immagine pura. Una lampada ondeggia nel buio. È il principio del cinema: andare alla luce e indirizzarla sulla nostra notte. La nostra musica. La fotografia (mobile o immobile, sospesa tra fiction e documentario) diviene un sogno fuori fuoco, una persona in frantumi. Il dialogo è un dolore privo di catarsi: come per Fedra, la confessione produce soltanto un più acuto senso di colpa. Siamo tutti colpevoli, di tutto. Una lacerazione (in)sanabile: per abbordare (il mondo del)l’altro, solo l’altro mondo. Olga è pronta.
Una spiaggia sorvegliata da marine statunitensi. Un orizzonte rasserenato, un’oasi di verde e azzurro in cui regna il silenzio quasi assoluto: l’Eden ricostruito (dal cinema) a una distanza siderale (e incolmabile) dalla Terra. Il trionfo, la sconfitta.
Conversazione non per ma fra immagini sull’orlo di un(a messa in) abisso, diamante tagliente e perfetto, ragnatela audiovisiva e onnicomprensiva in cui la parola umana si perde fatalmente, NOTRE MUSIQUE è un vertice teorico e pratico (ammesso che un simile distinguo abbia senso, in questo caso) del cinema. La lucidità con cui il regista riflette sulla propria opera nel momento stesso in cui la crea non ha nulla di pedante o dimostrativo: gli indizi metalinguistici, le citazioni, le meticolose glosse debordano di passione, sono fiamme di pura luce su uno schermo nudo. Trasparente ed enigmatico, infinitamente stratificato, meravigliosamente semplice, il film di Godard è soprattutto assoluta gioia dei sensi: alle colonne d’Ercole del testo, l’irraggiungibile (d’abitudine) oceano delle immagini.
