Documentario, Miniserie, Netflix

SANPA

NazioneItalia, U.S.A.
Anno Produzione2020
Durata301' - 5 puntate
Fotografia

TRAMA

Nascita, crescita, fama, declino e caduta della Comunità di San Patrignano  fondata da Vincenzo Muccioli negli anni 70 per il recupero dei tossicodipendenti.

RECENSIONI

È difficile parlare di Sanpa perché Sanpa, in un certo senso, siamo noi. E ciò vale anche per chi anagraficamente ha soltanto sfiorato le vicende di quegli anni, se le ricorda appena o non ne aveva consapevolezza.
A ogni buon conto, gli autori ci pongono di fronte alla resistibile ascesa di Vincenzo Muccioli, talvolta tratteggiata come una rise and fall shakespeariana, talvolta appunto secondo gli stilemi, anche mimici, di una più esplicita farsa tragica, se è lecito l’accostamento semantico, in apparenza ossimorico. Lo aveva fatto, in forma di pura fiction, anche Clint Eastwood con J. Edgar, non a caso un altro uomo influente – influentissimo – i cui frutti, nel bene e nel male, non caddero troppo lontani dall’albero-Stati Uniti d’America che lo aveva investito di un potere quasi illimitato, che lo aveva generato.
Può sembrare anche una parabola cristologica, quella di Vincenzo da Rimini, santo dei tossicodipendenti, gli zombie di un’apocalisse annunciata, abbandonati completamente dalle istituzioni. Pare che si sia agito secondo un discutibile processo di delega: la tragedia dell'eroina, a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, non poteva più essere derubricata a problema dei margini, degli emarginati. Non vi era la volontà o la capacità politica di affrontarlo - troppo scomodo, multiforme-, ma si poteva ammettere che qualcuno che teorizzava al di fuori dell’ortodossia clinico-psichiatrica fondasse una comunità di recupero, sempre più grande e sempre più esposta, a livello mediatico. Il carisma di Vincenzo Muccioli, che ci appare come un uomo volitivo e sicuro, una montagna, anche dal punto di vista fisico, trova una significativa cassa di risonanza nella televisione, di Stato e non. Il quinto potere non ha bisogno di essere imboccato con stratagemmi o iperboli perché scova da sé agnelli e fiere; li forgia, all’occorrenza, stabilendo ruoli e consuetudini per amor di audience, abdicando alla ricerca della complessità, di un qualche tassello di possibile verità.
La santificazione si accresce e al contempo si incrina in modo speculare rispetto all’espansione di San Patrignano, attuata con metodi talvolta giudicati coercitivi (si pensi, per esempio, al cosiddetto processo delle catene, conclusosi con un’assoluzione in appello per Muccioli). Come in Wild Wild Country, docufiction dalla struttura simile a quella di Sanpa, il divario fra nobili intenti ed esiti sembra farsi via via più evidente e più chiara ci appare la contraddizione insita in un cesarismo gramscianamente tipico, quello che si realizza quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere».

Pensando a Brecht, sì, viene in mente Arturo Ui: la simulazione, la dissimulazione, ma anche e soprattutto una società incapace di leggere i segni del proprio presente – ciò che sta fra vecchio e nuovo – di farsi soggetto partecipe di un dramma collettivo come quello che comprende l’uso e l’abuso di droghe. Lo straniamento ci coglie, come sarebbe piaciuto all’autore di Augusta, e non possiamo certo sentirci assolti, osservando gli sguardi cercanti degli ospiti della comunità o quelli perduti di coloro che chiedevano di farne parte.
Riferendosi a Shakespeare invece, il pensiero va più Macbeth che a Riccardo III. Non tanto perché Muccioli dimostri la titanica autocoscienza del tiranno scozzese – il documentario non fa emergere un dato simile, e si nota piuttosto una certa tendenza accentratrice -, ma perché viene voglia di riflettere sullo human touch e sulle sue implicazioni. Si viaggia anche dalle parti di Re Lear, con la preminenza di un approccio emotivo ai problemi, che parrebbe eludere, o comunque mettere in secondo piano, in certi momenti, quello più pragmatico: dimostratemi che mi volete bene.
Lontanissimi dal creare il mostro che si ciba delle carni di uno Stato-Leviatano dormiente, gli autori di Sanpa più di una volta mi hanno spinto a cercare nello sguardo acceso, vivace di Vincenzo Muccioli la ragione (le ragioni) di una prassi che ci mette in discussione. “Cosa avremmo fatto noi?” è il quesito sbagliato. Chiederci cosa abbiamo davvero fatto, cosa facciamo, forse, squarcia un velo di ipocrisia che preferiremmo tenere sollevato.
Subentra poi una questione seminale: fino a che punto è lecito spingersi per salvare qualcuno? Se lo è chiesto anche Ian McEwan col suo La ballata di Adam Henry, trasposto nel film The Children Act – Il verdetto. L’autore inglese ci lascia con più dubbi che risposte e con un’amarezza di fondo che proviamo sempre, di fronte alla nostra in-utilità.
Il male e il bene, del resto, sono concetti della morale che, Kant ci insegna, è una cosa seria: nulla a che fare con i precetti moralistici di cui si nutre una parte della contemporaneità.
Cosima Spender e i suoi collaboratori hanno indagato l'uomo e credo che lo abbiano fatto in modo corretto, entro i limiti che un'esegesi di quel tipo ha per statuto: possiamo farci un'idea su fatti e azioni, possiamo ragionare, perantitesi, sulla fondazione della comunità, lo stesso anno, il 1978, della promulgazione della Legge Basaglia. L'Essere però rimane un intrico indissolubile, il più profondo fra i misteri. Chi fosse davvero Vincenzo Muccioli non possiamo saperlo – non ne abbiamo facoltà – e questo lavoro si sottrae ai punti fermi, ai teoremi.
Tuttavia il Cristo che invocavo all'inizio di questo pezzo mi pare di averlo trovato, non nella figura del fondatore, bensì in quella di Fabio Cantelli, la coscienza critica del racconto, colui che è ciò che è «grazie a San Patrignano e a Vincenzo, e nonostante San Patrignano e Vincenzo». La sua immagine, comprensibilmente l'ultima che la camera riprende, è quella di una sorta di martire coraggioso di un credo secolare, quella di una Cordelia che continua ad amare grazie e nonostante; soprattutto è quella di un Orazio che non ha mai smesso di provare a interrogarsi, di provare a capire, di provare a raccontare.