TRAMA
La vita di un chirurgo, con la figlia che sta morendo nel suo ospedale, e il ricordo dell’amore più grande della sua vita.
RECENSIONI
Piccola premessa inutile: non abbiamo letto il romanzo della Mazzantini e dunque ci esimiamo dalle inanità del raffronto.
Timoteo trasecola trascolorando i ricordi nella pioggia che (ac)cade insensata come tutte le cose del mondo e della vita. L’atroce notizia dell’incidente della figlia ne intorpidisce la visione, così come tutti gli altri sensi. Lo sguardo si perde in un vuoto apparentemente atarattico che prelude a uno smarrimento assoluto del senso (dei sensi, ancora). Di qui, automatico, crudele, implacabile il meccanismo di trasfigurazione della (/nella memoria), una rèverie che si annuncia nella mente del chirurgo come uno squarcio di bisturi nella pelle dell’esistenza, il sogno/incubo di un amore dolente, come tutti gli amori, “sbagliato”, struggente, sudato, bagnato, tenero e violentissimo nel delirio dei corpi desideranti, l’illusione di sentire qualcosa nell’infinito nullificarsi delle cose, di opporre resistenza a ciò che ineluttabilmente dopo aver concesso la sua mortale carezza ci scivola via, perdendosi, perdendoci. L’illusione del percepire di fronte al male di vivere. La carnalità come disillusione “salvifica” per tutto questo, prima della morte…di ogni morte. Avremmo voluto definire sublime la sporcizia amalgamata dello spasmodiare dei corpi che cercano la vita sullo sfondo di un’Italia ai margini di se stessa, brutta, affannata e lercia come l’Italia amata da Timoteo in un tempo e in uno spazio da apocalisse del cattivo gusto, il “belpaese” dei Toto Cutugno ascoltati nello squallore delle periferie, nella desolazione delle strade squagliate dal sole, nelle osterie dei quartieri residenziali ai confini con gli obbrobri architettonici delle speculazioni edilizie dove si servivano birre calde e si spargevano i miasmi delle magliette sudaticce di improbabili Falçao. Altri tempi, altri luoghi, un’altra Italia e tuttavia la stessa; nulla sembra essersi veramente mosso, un triste “stivale”, una inzaccherata, negletta, sconsolante, straordinaria scarpetta rossa. Eppure questo film così diseguale, “spaesato” e per certi versi non privo di un fascino malato è un brutto film, sovraccarico di enfasi, di programmaticità, fin troppo demandato all’attorialità, al muoversi macchinico del corpo attoriale quando ci sarebbe stato il desiderio di un movimento più “puro” di corpi più “semplici”. Una pellicola che avremmo voluto (vedere) moto più lacerata, considerato l’innegabile impegno di Castellitto nel voler mettere in opera una storia di materia e memoria. Un film che pur nella (in)felicità di acune sequenze, nell’appiccicosità di alcune atmosfere rimane troppo squadrato e troppo confezionato nell’asfissia del meccanismo interpretativo, che ne falsa irrimediabilmente toni e, forse, intenti.
Quando si e' bambini capita che alla vista di parenti o conoscenti la mamma cominci con insistenza a squittire "Dai! Fai un sorriso! Eh su! Forza! Non ti far desidare!". Ecco, il film di Castellitto, dall'omonimo successo letterario di Margaret Mazzantini, pungola lo spettatore con una dinamica non troppo dissimile: "Piangi! Dai! Spremi quelle lacrime!". Purtroppo, pero', la messa in scena di situazioni al limite dello strazio non produce l'effetto cosi' meccanicamente ricercato. Non basta, infatti, seguire fedelmente un romanzo (la Mazzantini e' anche co-sceneggiatrice) per trasmetterne la suggestione. Cio' che funziona tra le pieghe di un libro non e' detto che funzioni sul grande schermo, dove l'esposizione deve tendere a un delicato equilibrio per poter affrontare e superare l'infrangersi dell'immaginario di ciascun lettore. Ma anche prescindendo dal testo di origine, e' proprio l'opera cinematografica in autonomia a non convincere. Nonostante infatti le buone prove recitative dei tre interpreti principali (Cruz, Castellitto, Gerini) e il tentativo di imprimere personalita' al racconto con punti di vista ricercati e inquadrature originali, il film non decolla mai: affianca situazioni prevedibili (lo spettatore e' sempre in grado di anticipare le svolte drammatiche e quando non accade le coincidenze paiono forzate), crea contrapposizioni forti, ma deboli nella loro scontatezza (nascite e morti variamente intrecciate, ricchezza e poverta', candore e grettezza, citta' e periferia, apparenza e intimita', violenza e amore), eccede in simbologie (l'amplesso doloroso sulle conchiglie) e, soprattutto nella parte finale, insegue il facile effetto, perdendosi in tante (troppe!) scene madri dal limitato impatto emotivo. Causa principale, il peso dell'enfasi melodrammatica, l'impeto didascalico con cui ogni sequenza contiene i sottotitoli del dolore. Anche le virate surreali (la scritta sulla spiaggia, il dialogo con la dirimpettaia) e le scelte musicali ardite (Toto Cutugno e gli Europe in primis), pur apprezzabili concettualmente, finiscono per assumere toni grotteschi e stridenti. Cio' di cui si sente maggiormente la mancanza e' quindi la capacita' di unire i singoli elementi con armonia, un senso della misura in grado di mantenere costante la tensione nei confronti dei personaggi e del loro destino. Invece il progetto, studiato a tavolino per scuotere, finisce per poggiarsi esclusivamente sulla resa espressiva degli attori. Per un po' si sta al gioco, poi si cede al tedio, e dei protagonisti e della loro infelicita' si finisce per infischiarsene.