TRAMA
Un fotografo effettua sopralluoghi nel deserto Joshua Tree in California. La sua donna lo segue.
RECENSIONI
Credo che il film sia molto semplice: sono in due e si amano. Io metto la macchina da presa e sondo il tutto. Punto e basta.
Bruno Dumont in conferenza stampa a Venezia 2003
È un film di brutale linearità Twentynine Palms: contro la ricerca sconsiderata di significati, l'analisi esasperata che vuole scavare, sviscerare, rivoltare l'immagine, Dumont, nella consapevolezza dell'impossibilità di riprendere la profondità, preferisce essere diretto, semplice, di una immediatezza talmente spudorata da essere fraintesa.
Spiazza un film che offre tutto in superficie, spiazza la coscienza di un regista che sa che la profondità è dietro l'evidenza, che si sottrae alla visione, che si percepisce (con lo stomaco e non col cervello) agitarsi sotto lo strato dell'ovvio (mai sottovalutare l'ovvio). Twentynine Palms, come il precedente, imprescindibile, L'umanità, dimostra quanto poco il regista sia interessato a giudizi e ad analisi, a denunce e indagini (sociologiche, politiche, psicologiche): il protagonista è e rimane lo sguardo e l'autore decide di scommettere sullo spettatore azzerando la narrazione, concentrando l'attenzione sul film stesso. Cinema puro, dunque, quello che manda in corto circuito l'amena dietrologia di tanta critica: una coppia attraversa il deserto e fa viaggiare un rapporto difficoltoso (i due parlano lingue diverse, spesso non si capiscono, hanno difficoltà a comunicare), a tratti istintivo e felicemente animalesco, a tratti più contrastato, ruvido, spigoloso. Lui e Lei spesso non parlano della stessa cosa, fraintendono, ma sanno di vivere la stessa situazione, il senso che non raggiungono con le parole lo raggiungono col corpo. Intorno a loro una natura selvaggia immersi nella quale fanno l'amore, dormono, si parlano, si fermano, guardano, riprendono il viaggio. Litigano spesso, scopano spesso. Ma qualcosa di orribile sta per accadere, nel susseguirsi degli eventi banali di questa coppia itinerante si percepisce una tensione, una sospesa minaccia che porterà due puntini nel deserto dalla beatitudine più totale all'atrocità più raccapricciante: non abbiamo il permesso di svelare il finale ma il film, con una virata violentissima, all'improvviso assume le tinte dell'horror, spacca l'occhio dello spettatore, lo spiazza ancora una volta.
Lunghe, suggestive sequenze (uno dei riferimenti chiave sembra l'Antonioni di Zabriskie Point anche se il regista nega di averlo visto - Scusate, ho delle lacune - non si sa se per onore del vero o per vero vezzo) che richiamano, come il film del 1970, l'immaginario di tanto cinema americano; pochi dialoghi; di didascalismo neanche a parlarne ché l'amore e l'odio, il dolore e l'orgasmo, l'incomprensione e l'armonia sono leggibili all'istante, senza sottolineature, senza trucchetti e furbizie; basta avere le palle di rinunciare a questi mezzucci e le immagini diventano quello che devono essere: tutto. Il porco coraggio di spogliare la cinepresa e girare...
Cinema nudo, senza maschere.
Cinema candido. Virgineo.
Cinema intransigente di lacerante, violenta bellezza.
Cinema di cui si sente maledettamente bisogno
Voglio che il cinema sia un momento di regressione totale e che la questione della morale non si ponga eventualmente che dopo la proiezione. I dibattiti morali nascono da ciò che è nella testa dello spettatore, non da ciò che è sulla pellicola. Lavoro molto per far sparire tutto ciò che potrebbe far passare un messaggio o un'idea. È l'azione che mi interessa, perché non c'è intenzione, riflessione. L'intelligenza mi nausea (da "Positif" N. 511 Intervista a Bruno Dumont di Philippe Rouyer e Claire Vassé).
Afferma il regista Bruno Dumont, in un'intervista riportata nel press-book di presentazione del film: "Avevo notato da parecchio tempo, soprattutto in fase di montaggio, che anche senza niente si fa sempre qualcosa, che le inquadrature non hanno necessariamente bisogno di sostenere un racconto. Neutralizzare il racconto è diventato quindi un principio, a tutti i livelli del film. Non volevo appoggiarmi sul suono o la fotografia perché, per me, l'essenziale nel cinema, è la sintesi, il film stesso".
Può sembrare facile distruggere un film difficile, che sperimenta il linguaggio cinematografico per cercare altro rispetto all'omologazione imperante, ma le apprezzabili intenzioni si concretizzano in un film brutto e furbo (lo scandalo è tutt'altro che casuale). Per restare alle dichiarazioni del press-book, la sintesi che ne deriva è noia allo stato puro. Niente, infatti, dell'on-the-road abbozzato dal regista riesce a colpire, a interessare, a giustificare la visione:
- né l'artificiale spersonalizzazione dei personaggi, con un uomo e una donna forzatamente vaghi che parlano di niente e non vanno da nessuna parte, salvo cambiare repentinamente umore, con lacrime e risate immotivate;
- né l'aspetto visivo, con gli unici spunti dovuti alla naturale bellezza dei paesaggi e un accostamento di nudità e roccia che fa tanto "Zabriskie Point" dei poveri; brutto, anche se ovviamente ricercato, il traballamento della macchina da presa sull'auto in movimento e brutte pure tutte le sequenze di sesso che, tra l'altro, suonano totalmente fasulle (aspetto che stride con l'insistita esibizione genitale);
- né l'aspetto provocatorio, con una grevità di maniera che sfocia nella mattanza in modo assolutamente gratuito; al riguardo sarebbe curioso capire, visto che due persone che compaiono sullo schermo sono comunque interessanti anche se non fanno nulla (affermazione anche condivisibile) per quale motivo il poco che fanno deve per forza prevedere l'invincibile accoppiata sesso & violenza.
Non è tradire le premesse sperimentali?
Non è che la patina intelettualoide maschera malamente un vuoto di idee?
Non è che l'esperimento senza il corredo di scandalo non remunera a sufficienza?
Ai posteri l'ardua sentenza.