TRAMA
1922. Tre uomini a cavallo inseguono un fuggitivo nell’outback australiano. Li guida un aborigeno.
RECENSIONI
Tre bianchi e un nero attraversano la selva australiana alla ricerca di un aborigeno, accusato di avere violentato una donna bianca. Storia di razzismo che ripropone atmosfere da western crepuscolare post "Soldato Blu", "The tracker" si distingue per alcune scelte narrative e di regia. Parti intere di sceneggiatura, infatti, sono cantate dall'aborigeno Archie Roach, che permea il racconto di suggestioni blues di struggente verita'. Inoltre le scene di violenza, invece di essere mostrate, sono sostituite da dipinti del pittore australiano Peter Coad. Il sottrarre elementi visivi, scelta controcorrente rispetto ai tanti autori che pensano che efficacia di un messaggio ed esibizione vadano di pari passo, rafforza la carica emotiva delle sequenze, lasciando spazio all'immaginazione dello spettatore. I caratteri dei protagonisti sono l'elemento meno convincente perche' risultano grezzamente scolpiti per creare i necessari contrasti drammatici. Sono, pero', personaggi simbolo gia' nelle premesse. Non hanno infatti un nome, ma vengono presentati come il Fanatico, il Veterano, il Segugio, la Guida, il Fuggitivo, diventando quindi emblemi universali di rapporti sociali basati su razzismo, sfruttamento e giochi di potere.Grazie a queste interessanti varianti il film dell'olandese Rolf de Heer esce dai confini della storia raccontata (vista e stravista) e diventa una riflessione attuale non priva di fascino. In questo senso il regista compie un'operazione non dissimile, come approccio puramente intellettuale, a quella di Todd Haynes in "Far from heaven", che rinverdisce i fasti dei melodrammi degli anni cinquanta di Douglas Sirk raccontando cio' che allora restava sottinteso. In entrambi i casi si gioca con il cinema e i suoi miti mediante la contaminazione di stili diversi e la forma assume un ruolo determinante. Con la variante che in "The tracker" il risultato e' meno raffinato, ma piu' sanguigno e sostanziale.
Sorta di anomalo western aborigeno in cui De Heer fa della spedizione dei quattro uomini una sorta di tesa partita a scacchi con continui capovolgimenti di fronte: tra personaggi senza nome, puri archetipi, violenze evidenti e sottaciute serpeggiano, riflettendo il complesso contrasto interazziale dell'Australia dell'epoca, lo strapotere del colonizzatore, la sottomissione dei nativi. Cos'è un uomo bianco e cos'è un uomo nero, dove inizia l'abiezione nei confronti del proprio simile? Temi che si inseriscono in una narrazione che scorre, come i meravigliosi paesaggi attraversati dai protagonisti, tra lunghi momenti musicali (pare che le lunghe ballate in origine fossero dei monologhi giudicati poi troppo pesanti dall'autore e di conseguenza risolti in chiave blues). Nelle fasi più violente l'immagine reale viene sostituita da quadri naif dipinti da Peter Coad, che irrompono improvvisi e che fermano, con drammatica intensità, le angherie subite dagli aborgeni. Strano film, più curioso a raccontarsi che a vedersi, grezzo e immediato ma senza guizzi, decisamente troppo appiattito sulle elementari e scontate dinamiche dei rapporti tra i personaggi.