Documentario, Recensione

FAHRENHEIT 9/11

Titolo OriginaleFAHRENHEIT 9/11
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Durata116'
Sceneggiatura
Fotografia
Musiche

TRAMA

Dalle compagnie petrolifere alla contestata elezione, dall’11 Settembre 2001 alla guerra in Iraq, le strabilianti avventure di George W. Bush.

RECENSIONI

Michael Moore è un documentarista manipolatore, diffamatorio, arbitrario, irriverente, compiaciuto ed esibizionista. Eppure, le sue investigazioni sono necessarie. Veritiere? Forse no. Utili? Sicuramente. Se non altro contribuiscono ad alzare una voce di dissenso radicale e sfrontato, e lo fanno provocando fino alla nausea, sfruttando materiali che oltrepassano l’etica del giornalismo più abbietto e sconfinano nel pamphlet di basso livello. L’opera incoronata a Cannes con la palma d’oro non è altro che un attacco sferrato alla presidenza degli Stati Uniti bilanciandosi fra tocchi di stile (vedi la scelta di non mostrare il crollo delle Twin Towers ma di farcelo solo sentire, quasi ad evocarne l’indelebile ricordo) e mezzucci, fra rivelazioni che ghiacciano il sangue e volgare demagogia. Moore conosce bene le armi della retorica e le usa a tutto spiano, attraversando terreni diversi e quasi opposti: ci rivela cospirazioni e sotterfugi della famiglia Bush utilizzando brandelli di cultura pop che scorre nelle vene della stessa America che il testo critica. C’è di tutto in questo minestrone mediatico. Dal footage televisivo a quello dell’archivio cinematografico, dal rock and roll alla musica minimalista (in cui si intravede un’eco dell’altro grande documentarista premiato con l’academy award, Errol Morris), dalle interviste ai cittadini di Flint, Michigan, (già celebrati da Moore nel suo Roger and Me) a quelle ai soldati dislocati in Iraq. Ma Fahrenheit 9/11 non è un’accozzaglia dei detriti di una delle amministrazioni meno amate e più contestate nella storia degli Stati Uniti. Per quanto sferrato sotto la cintura, il film è una attacco lucido e orchestrato con precisione, che raccoglie sotto la sua bandiera le opinioni di molti, molti cittadini statunitensi. Lo stile che Moore aveva portato a maturazione in Bowling for Columbine (per quanto il documentario fosse comunque discutibile nei suoi metodi oltre che nei dati e nelle fonti) sembra essere qui un po’ appannato da un odio viscerale per il viscido presidente. Fahrenheit 9/11 quindi sembra essere privo di una qualità che era diventata un marchio di fabbrica di Moore: l’ironia. E quando perde la voglia di scherzare, Moore dà il peggio di sé.

Dopo il successo mondiale di "Bowling a Columbine", sulla irrazionale diffusione di armi negli Stati Uniti, l'acuto Michael Moore si dedica a un tema quanto mai spinoso e attuale: il post 11 Settembre. Il suo documentario, esplicitamente di parte, si prefigge di fare contro-informazione denunciando i loschi traffici di Bush (George padre nell'ombra, George figlio sotto i riflettori) e del suo staff per difendere i propri interessi personali piuttosto che quelli dei cittadini da cui ha, pardon avrebbe, ricevuto mandato presidenziale. Il punto di partenza è infatti la contestata elezione con cui, per una manciata di discutibili voti, Gore fu sconfitto da Bush. Per poi passare alla tragedia dell'attentato al World Trade Center e a tutti i giochi di potere successivi, fino alla politica del terrore costruita a tavolino per giustificare guerre contro regimi dittatoriali lontani, tra le cui gravi colpe la più cruciale è il prezioso oro nero da cui dipendono sempre più le sorti del mondo. Il taglio adottato dal Beppe Grillo d'oltreoceano è, come al solito, caustico e provocatorio. Per ottenere un consenso e scuotere il pubblico non va per il sottile e utilizza tutte le possibili sfumature della retorica, ma non si limita a ipotesi e congetture: raccoglie prove, fornisce testimonianze, dati, cifre, interviste, documenta con dovizia di particolari la sua rabbia nei confronti di un uomo dalla cui politica si sente ingannato. La forza di Moore è di dare voce a una moltitudine che si sente schiacciata senza avere l'energia, il coraggio e  gli strumenti per gridare il proprio dissenso. La sua debolezza è di partire da un punto di vista già dichiaratamente di parte che tende a modellare il materiale a disposizione sulle sue convinzioni, molto giocato su una contrapposizione ad effetto che alla lunga perde, non tanto verve, quanto profondità. Il linguaggio di Moore è quello di uno scaltro conoscitore dei meccanismi spettacolari: diverte quando presenta Bush e i suoi alleati come se fossero i protagonisti di un "Bonanza" qualsiasi; sconvolge quando mostra l'11 settembre attraverso gli occhi atterriti di chi era lì e non poteva fare altro che guardare, tra l'attonito e il disperato; colpisce quando segue il cammino della madre di un soldato al fronte, prima acritica nei confronti della guerra e poi distrutta dal dolore per l'inutile morte del figlio; indigna quando fa capire come le forze reclutate per combattere provengano in maggior parte dalle classi sociali più disagiate, ai margini del sistema; agghiaccia con il cinismo delle dichiarazioni dei giovani e spavaldi soldati, carichissimi per gli imminenti scontri a fuoco. Moore lancia tante frecce, apre tante parentesi, attraverso una narrazione che si fa via via più complessa e non sempre lineare (i legami tra Bin Laden e il clan Bush non sono poi chiarissimi) e il risultato è meno sofisticato rispetto al precedente "Bowling a Columbine", che godeva anche di qualche bella idea in grado di coniugare forma e sostanza (le connivenze americane sulle note di "What a wonderful world", oppure il bellissimo cartone animato sull'atavica paura, tutta americana, dell'"altro"). In ogni caso il suo è un cinema forte e necessario, che, come ha sottolineato Quentin Tarantino consegnandogli la Palma d'Oro a Cannes, "scatena passioni". Tra i pregi, anche quello di sdoganare il documentario, in genere distribuito poco e male e raramente incluso tra le possibili forme di intrattenimento. E poi, chissà, in un paese in cui il terrore entra nelle case attraverso le televisioni, la storia viene riscritta dai kolossal cinematografici ("Troy" l'ultimo arrivato) e dove gli attori finiscono per governare stati o nazioni (da Ronald Reagan ad Arnold Schwarzenegger), c'è caso che un film possa arrivare a influenzare l'opinione pubblica più di mille comizi o strategie di marketing. Ai seggi l'ardua sentenza.