Drammatico, Recensione

I TESTIMONI

TRAMA

Nella Parigi dei primi anni ’80, vita e tribolazioni amorose di un medico omosessuale ed un giovane edonista, frequentatori notturni del Bois de Boulogne; di una scrittrice di favole alle prese con una gravidanza ed un marito beur che si scopre “pansessuale”.

RECENSIONI

Téchiné non ama le mezze misure: adora le tinte forti, predilige i sentimenti estremi, non dispone le immagini ma le impone. E’ regista dell’evidenza lapalissiana, della sintesi autopoietica, non della gradualità ma della frontalità. Per questo, articolando il racconto del suo nuovo lavoro seguendo il ciclo delle stagioni, salta quelle intermedie passando direttamente dal vitale/solare/caldo (Estate) al suo opposto (Inverno). Il trascorrere delle stagioni coincide col passaggio imprevedibile ed al tempo stesso ineludibile dalla vita alla morte, dalla gioia al dolore. Nulla di particolarmente originale, a dire il vero, ma indubbiamente funzionale, logico, coerente. Prede di sentimenti forti, i personaggi vivono e muoiono d’amore, diventano i testimoni della comparsa di un virus che tutto sembra cancellare: la possibilità di un contatto fisico, che altera inevitabilmente le cadenze e le “regole del gioco” del sesso, ma addirittura, e più in generale, le relazioni umane. Non avendo ambizioni ad essere la versione francese di quell’inarrivabile capolavoro fantasy gay che è Angels in America, Les Témoins segue, senza deviazioni, la via meno accidentata del dramma ellittico, in cui alla fine nulla resta in sospeso, i nodi vengono al pettine ed un attimo dopo un deus ex machina penserà a sbrogliare la matassa. Téchiné è abile nel dirigere il triplice movimento a quattro voci (Estete/Inverno/Estate; Béart, Bouajila/Libéreau, Blanc), concedendo democraticamente ad ognuno il diritto a rendersi testimone di qualcosa: della vita e del dramma degli altri (la solipsistica scrittrice Sarah/Béart), della vittoria sugli altri (del migrante magrebino Medhi/Bouajila, divenuto flic, perfettamente intergrato?), della lotta per la libertà di amare e di nulla rimpiangere (Manu/Libéreau), della battaglia condotta in nome della cura dell’altro (il medico Adrien/Blanc, che promuove le prime campagne di prevenzione). I numerosi momenti felici compensano le pagine meno riuscite e più didascaliche: le passeggiate solitarie nel bosco “to trick”, l’autoisolamento di Adrian, che rifiuta il contatto con il mondo perché non vuole più essere visto, che si sente braccato, assediato, sebbene sia sempre più tragicamente solo (una delle “metafore” più riuscite della condizione del malato). La Béart si concede anima e corpo, con generosa e spesso gratuita esibizione di epidermide, Bouajila si conferma attore di talento, Blanc è al suo miglior ruolo da molti anni a questa parte, ma il migliore in campo è il giovane Libéreau, che si era già fatto notare in Douches froides, mai distribuito in Italia. Diciamolo, anche se i cultori del cinéma d’auteur, e lo stesso “auteur” Téchiné, storceranno il naso: buon cinema medio, come in Italia non si fa più.