Commedia, Drammatico

ZEROVILLE

Titolo OriginaleZeroville
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2019
Durata96'
Sceneggiatura
Tratto daZeroville di Steve Erickson

TRAMA

Vikar è uno studente di architettura che arriva nella Los Angeles di fine anni Sessanta: farà di tutto per diventare un montatore di Hollywood.

RECENSIONI

Dopo la storia della letteratura americana James Franco continua a riscrivere quella del cinema: «Posso fare sia Strafumati che William Faulkner», aveva detto, in occasione della presentazione veneziana di In Dubious Battle nel 2016, in cui non temeva di entrare in prima persona nel racconto steinbeckiano, trascinandolo sul suo divismo (e così valorizzandolo), arrogandosi il sacrosanto diritto di cambiare il finale. L’opera che l’attore-regista porta avanti sul cinema si inserisce nello stesso solco: il risultato migliore, The Disaster Artist sulla lavorazione di The Room di Tommy Wiseau, confondeva i termini della questione tra cult e scult fino a renderli inestricabili. Nel successivo The Pretenders Franco allestiva addirittura un cripto-remake di Jules et Jim, ma tutto, sempre e rigorosamente, “secondo lui”. Non cerca la plausibilità l'autore (sì, autore) ma piuttosto la costruzione di uno spazio mentale, un passato contraffatto, una versione di Barney di cos’è il cinema raccontato attraverso il cinema. Per questo non stupisce Zeroville, film girato nel 2014, adattamento del romanzo di Steve Erickson in cui si vede una componente autobiografica, che riguarda l’arrivo dello stesso Franco nella terra della settima arte. L’aspirante montatore Vikar approda nella Los Angeles del 1969, mentre si compie il massacro di Cielo Drive, ed è naturalmente una Hollywood of the mind: la sua materia dei sogni è Megan Fox ovvero Soledad Miranda, la vampira lesbica di Jesús Franco che morirà nel 1970 in un incidente stradale, perché tutti i sogni svaniscono all'alba; il mentore è il perenne Seth Rogen ossia John Milius, che si aggira sul set di Apocalypse Now e intorno ai registi della New Hollywood. Da parte sua, Vikar si offre come un vero e proprio corpo-cinema: lo porta stampato in testa, nel tatuaggio sulla nuca di Elizabeth Taylor che balla con Montgomery Clift nella scena di Un posto al sole. Uno così non può che entrare nell’industria dello spettacolo, come scritto sulla pelle: il racconto si sviluppa in un calderone di vicende rocambolesche e volti noti, spesso (quasi sempre) al limite dell’aneddoto che sono tutti, è chiaro, opinioni personali di cinema, scherzi da bimbo cresciuto, frammenti scomposti di un immaginario riversati in immagine. Ecco che la nota battuta di Love Story («Amare significa...») viene messa in parodia mostrandone il ridicolo making of, ecco che il curatore d’archivio ha il volto di Gus Van Sant e il fantasma di Montgomery Clift quello di Dave Franco, fratello di James. E così via. Film disordinato, egotico, già visto, ma anche spudoratamente onesto e quindi irresistibile: Franco falsifica, certo, viene accostato alla Hollywood di Tarantino per associazione estetica, ma questa “storia secondo lui” anticipa il Mank di Fincher nella sua aperta volontà di riscrivere il cinema amandolo. A testa alta. D’altronde ognuno sogna il proprio sogno: lo sa bene James Franco, che arriva a rimontare la sequenza di Un posto al sole infilandoci dentro se stesso. Non siamo noi a condannare la sua tenera hybris.