TRAMA
Georges, giornalista, riceve una serie di videocassette che riprendono la vita della sua famiglia. Qualcuno li sta spiando.
RECENSIONI
Con NIENTE DA NASCONDERE Haneke non si limita alla consueta analisi glaciale di un contesto sociale - in questo caso la borghesia ovattata sulla quale si squarcia il velo (il discorso lynchiano, qui esplicitamente citato) - mostrandone tutti i guasti, inoculando il perturbante (cfr. FUNNY GAMES) in un ambiente di gomma allenato ad assorbire qualunque colpo, culla di cultura ed erudizione (pareti di libri come barricate contro le invasioni barbariche), ma che di fronte al pericolo ignoto entra in crisi (i litigi della coppia che ne rivelano la sostanziale distanza, la fuga di un figlio che chiede attenzioni, la difficoltà a gestire il presente non appena il passato fa capolino – realmente o oniricamente -). Non si limita Haneke neanche alla consueta riflessione sul rappresentare e sul rappresentato che sfidano l’etica e attendono lo spettatore al varco, sull’immagine filtro e condensato del reale, sull’ambiguità dello sguardo (cosa si sta guardando/ chi sta guardando), sancita subito, nella prima strepitosa sequenza del film (l’improvviso avanti-veloce sul piano fisso indica che l’occhio era quello di una telecamera diegetica: in quell’attimo il fuori diventa un dentro che dall’apatia sonnecchiosa vira lentamente ma inesorabilmente verso la tragedia). Non si limita il regista al solito, strategico evitare la retorica del campo-controcampo (gli asettici piani sequenza, cifra riconoscibile, soluzione stavolta quanto mai efficace per rendere la continua tensione del racconto), al dualismo verità/finzione, al tema della manipolazione dell’immagine (il protagonista che lavora in televisione e decide in sala montaggio come trasmettere il dibattito) e dei suoi usi impropri.
Haneke con questo lavoro va oltre poiché NIENTE DA NASCONDERE si rivela soprattutto un film politico, sottendendo un discorso di impressionante aderenza al dato contemporaneo; l’autore sembra infatti rappresentare, con acuta metafora, l’attacco dell’Islam al cuore dell’Occidente: cos’altro sono questi nastri registrati e questi disegni macabri recapitati in forma anonima ai coniugi Laurent se non le emanazioni di una violenza senza nome che minaccia lo status quo, i mezzi per attuare una strategia della tensione, l’arma di un terrorismo sublimato che mette a repentaglio le solide certezze di una famiglia che è esplicita espressione di una civiltà ricca e pacificata che, proprio perché ha tutto, sembra aver perso di vista i valori fondamentali (un figlio-alieno che non ha alcun contatto con i genitori, le cene con gli amici come patetici riti della chiacchiera e, soprattutto, l’agio come scudo di cartone - IL TEMPO DEI LUPI in fondo parlava proprio di questo -)? E se le videocassette sono anche un implicito invito a ri-guardarsi, a riflettere sul proprio vissuto fatto di un andare e venire concitato e meccanico, forse insensato, il televisore che rimanda i servizi del telegiornale sulle forze di occupazione in Iraq è lo specchio domestico su una realtà uguale e contraria in cui è l’opulento, civile Occidente che penetra e invade da par suo l’Oriente disagiato e “ferino”. E il suicidio di Majid pare quello di un kamikaze che, a costo della propria vita, sbriciola in un secondo la serenità artificiosa di un mondo, sfidandone la posticcia sicurezza, sollecitando in esso il senso di colpa per un benessere estorto e che altri pagano con l’indigenza, gli stenti, la guerra perenne (l’irrompere del figlio di Majid nell’ufficio di Georges, per guardare in faccia l’effetto prodotto dalla catastrofe, è la palese decodifica del simbolo). CACHE’ sembra dirci che la nostra civiltà, come il protagonista, ha un peccato originale da scontare (in Francia si chiama “Algeria”), una macchia “storica” da lavare che sconta quotidianamente con il rimorso, la paura, la rabbia (l’episodio del ciclista), la faticosa rimozione. E’ vero che nel film non tutto risulta calibrato (qualche sottolineatura di troppo c’è laddove, quando rimane laconica, l’opera suona superbamente), ma mai come in questo caso il cinema della minaccia di Haneke si traduce in un discorso teorico eccezionalmente lucido e finalmente compiuto.
Teorico Haneke, rigoroso Haneke, iterativo Haneke. Formule adeguatamente martellanti per un autore (ebbene sì) che ripropone con ossessiva insistenza una riflessione sempre uguale a se stessa: la società dello spettacolo come spaventoso appiattimento dell’essere sull’apparire, l’imbarbarimento del benessere, l’imbarbarimento nel benessere. Videoimbarbarimento, in ultima analisi. Anche stavolta il cineasta austriaco sviluppa il tema dato, inserendo tuttavia alcuni elementi di novità. Due sembrano i più evidenti: la fine delle storie e l’alleanza interculturale nel linguaggio della violenza. Il primo è addirittura enunciato dal film: durante un incontro letterario un intellettuale blasé dichiara la propria insofferenza nei confronti dell’espressione Fine della Storia. Per tutta risposta Haneke, con splendida intuizione stilistica, trasporta l’odiata nozione nel cuore del suo film, facendola uscire dal chiuso dei salotti letterari e dandole nuova linfa. L’ansia della rappresentazione, la sovraesposizione allo sguardo, l’ipervisibilità hanno cancellato il Tempo della Storia: ogni dimensione vitale confluisce nel segno iconico, la verità ha il volto di un’immagine, perfino il segreto esiste soltanto se mostrato. In Caché, titolo contraddittorio perversamente rovesciato (e quindi raddrizzato) dalla traduzione italiana, a dominare sono infatti gli strumenti di osservazione (telecamere, videocamere, televisori, monitor): dispositivi ottici che vigilano implacabili su Georges, Anne e Majid, trasformando ogni momento della loro esistenza in spettacolo, riproposizione nell’eterno presente dell’immagine. Privato del suo vettore essenziale, il racconto si riduce necessariamente a piano sequenza, a giustapposizione paratattica, a fattografia. Muore la Storia come principio di organizzazione epistemologica, muore la storia come criterio di strutturazione narratologica: la Fine della Storia è fine delle storie.
E fin qui Caché risulta una pellicola di stupefacente lucidità estetica. Dove invece perde colpi, vistosamente, è nel tentativo di fondare un’intesa interculturale nella pratica della violenza. Pierrot e il figlio di Majid hanno assimilato perfettamente la grammatica della crudeltà insita nel linguaggio (tele)visivo: tutto ciò che esiste è inquadrabile, tutto ciò che è inquadrabile esiste. La visione è principio di veridizione: visualizzare la colpa dimenticata, far rivivere l’evento traumatico sotto forma di immagine (consapevole, eidetica o onirica fa lo stesso), provocare un dramma perché questo sia ripreso (e il ralenti del gesto suicida sta lì a testimoniarlo) significa conferire statuto di verità a qualcosa che è soltanto realtà nella memoria, significa conoscere, sapere. “Volevo sapere che cosa si prova ad avere la vita di un uomo sulla coscienza”, dice il figlio di Majid a Georges nel bagno del suo posto di lavoro, “Ora lo so”. Questa affermazione va presa tremendamente sul serio, alla lettera, nella sua terribile portata morale. Lui e Pierrot sono figli del linguaggio televisivo, sono figli della violenza: in questo linguaggio e in questa pratica significante superano ogni differenza culturale. L’unione si chiama morte, omicidio, parricidio. La riflessione sulla responsabilità del linguaggio audiovisivo è insomma di una coerenza impressionante. Ma se lo svolgimento teorico è condotto con un rigore che mette i brividi, la categoricità dello schema danneggia pesantemente la progressione drammatica, trasformando l’enunciazione filmica in teorema, riducendo i personaggi a mere funzioni del testo e inaridendo la tensione psicologica in gelida elucubrazione intellettuale. Nell’ultima inquadratura, un totale di ingannevole enigmaticità, sta lo svelamento del mistero di Caché. Niente da nascondere: tutto avviene alla luce del sole.
La rigorosa geometria della vita di Georges (e famiglia) si muove sul filo: un sassolino può incrinare la vetrata, un occhio che spia dalle tendine può adombrare ogni angolo, decostruire certezze, sfumare nel buio gli spigoli. Inizialmente sulla falsariga di STRADE PERDUTE (i video di Fred come quelli di Georges), il nuovo film di Haneke non smarrisce la propria: al solito si scatena la lineare, poderosa ragnatela di piani sequenza ma stavolta questi sono distribuiti con programmatica perizia, scavando la solitudine di un uomo, i suoi silenzi e sottintesi che possono durare per lunghissimi minuti, da solo, seduto nell’ombra. L’inferno della coppia, lo spettro della dissoluzione è la tematica più frequentata degli ultimi anni: ma CACHE’ (titolo diabolicamente tradotto all’incontrario) lo fa con mirabile sottrazione, senza l’ansia di provocare o fare la voce grossa, con un’elegante fissità dello sguardo che semplicemente mostra, nello specifico persone qualsiasi, insinuando nel loro corso una nota di tacito, crescente terrore. Inevitabile che il rimosso non sposi mai la superficie: il silenzio di coppia (colpa?) rimane fragilmente intatto (qualcuno ha tradito? Lecito cogliere indizi ma non infondere senso logico), il dialogo si limita a vago balbettio che annega in un profluvio infinito di frasi di circostanza.
Haneke, finora maestro di giocattoli simpatici ma innocui (FUNNY GAMES) oppure odioso provocatore dissennato (LA PIANISTA), in CACHE’ sembra (quasi) comprendere che non occorrono automutilazioni o varie follie di riporto per fare un film: basta una camera, una coppia di interpreti d’intesa automatica (qualche sbando della Binoche ma Auteuil è un gigante, non da oggi), la volontà chirurgica di sondare il recesso dell’animo umano. Certo, dopo aver ricostruito l’impianto tramico s’impone chiaramente il limpido schema della narrazione, con debiti sparsi nel filone del genere; certo che la disturbante sequenza della morte di Majid farà discutere, a cavallo tra la pregnanza narrativa e la feroce dissonanza per colpire il pubblico. Ma il film, proponendosi come crudele indagine per nulla scontata, costituisce il pezzo pregiato nella collezione del regista che pare oggi muoversi verso un cinema diverso, meno urlato e più interiore, sviscerante la realtà spoglia di arditezze o caricature. Senza niente da nascondere.
L’illusionismo dell’inquadratura iniziale viene reiterato per quattro volte nel corso del film, come un esasperante leitmotiv, e ne offre la chiave di lettura più pertinente, ma non del tutto esplicita: una ripresa apparentemente oggettiva si rivela la soggettiva di uno sguardo che spia, immortalato su videotape. Non si tratta dell’annosa lamentazione sul nostro stato di voyeurs (il pubblico come colpevole) nella mascherata dell’esistenza. Ben altro bolle nella pentola moralista e acre dell’autore: il protagonista è conduttore televisivo di programmi culturali, e collabora alla loro regia manipolandone i contenuti; i telegiornali esibiscono i sofismi del Governo italiano per occultare la corresponsabilità d’una guerra d’aggressione; i due sposi sanno poco o nulla del figliolo adolescente; la bella casa in cui abitano è incorniciata da una libreria come il set ove lui conduce le sue trasmissioni. La micidiale deduzione conclusiva è alla nostra portata, ma il regista evita di confermarla con la brutale apparenza di una prova. Il protagonista è agitato da un oscuro senso di colpa che rimonta all’infanzia; notava Forster che il senso di colpa è bisturi pericoloso, perché col tessuto malato taglia quello sano. Troppo ottimista: per Haneke è l’alibi di menti e società contorte, che ne usano per figurare come vittime di una persecuzione e dirigere su un capro espiatorio il peso che le opprime. Dostojevskij finisce nel cestino della carta straccia, e con lui secoli di tradizione occidentale: un fondamento della civiltà viene denunciato quale forma della paranoia, strumento dell’avidità. Se avete dubbi, chiedete a chi ha sconvolto un continente con un pretesto fasullo: vi risponderà, vi ha già risposto, d’aver avuto comunque ragione, e che l’aggredito aveva comunque torto.
L’obbiettivo di chi possiede qualcosa è conservare il tesoretto: una moglie, un figlio, uno status professionale e sociale, un benessere materiale, amici con cui conversare amabilmente. Oggi come allora Georges è pronto a tutto per salvare la sua prosperità (“Cosa si fa per non perdere niente!”), le cui gelide note emergono nella conversazione con la madre impassibile: “Ti ricordi di Majid?” le chiede il figlio, e lei risponde “Chi?”. Le conseguenze delle nostre azioni non ci riguardano; i ricordi molesti vanno cancellati o alterati; la colpa è degli altri, peggio per loro se soccombono.
“Io ti credo. Sei tu che non mi credi”, constata il fratello mancato; “Io mi fido. Sei tu che non hai fiducia in me”, gli dice la moglie ingannata, che forse lo inganna a sua volta. La falsità è approvata dal buon senso, premiata dalla convenienza; ma si attacca alle nostre facce, alla nostra pelle fino a diventare una seconda natura: Georges sospetta che qualcuno lo voglia incolpare d’un crimine, cioè proietta sugli altri ciò che lui stesso ha fatto, quarant’anni prima come oggi: imputare falsamente qualcuno per trasformarsi da colpevole in giustiziere. Comodo, vero? Al figlio di Majid dirà “Non ho nulla da nascondere”; ma qualcosa c’è. Voleva liberarsi accusando; un tragico contrattempo – il predestinato sfugge al ruolo del colpevole – gli fa mancare lo scopo. Il rimedio è pronto: assume un sonnifero, abbuia la stanza, allontana il mondo, nega le responsabilità, si stende a dormire; infine, osserva di nascosto il ragazzo che viene condotto via con violenza, accompagnato dalla condanna come prima era stato degnato della paternalistica premura che riserviamo a chi sta in basso. Haneke continua a colpirci in pieno volto. Muove tuttavia un apparato talora troppo macchinoso, e certo troppo ambiguo (anche il finale apre nuove piste di decifrazione, rivelazioni o attese) per sortire un effetto sicuro: il guanto in cui nasconde il pugno si è fatto più spesso, quasi impenetrabile. L’assenza di uno scioglimento univoco contribuisce a un esito percettivo incerto, ma diabolico per concezione e forse persino più estremista nell’assunto rispetto a La pianista e Il tempo dei lupi. Annie Girardot è devastata e grandissima, Auteuil recita sotto le righe, Binoche sopra: le loro conversazioni scoccano scintille, i loro sguardi possono più di una fiamma.