TRAMA
Virginia 1607: sbarcano gli inglesi con John Smith che s’innamora, ricambiato, di Pocahontas, figlia del re della tribù locale. Ma sarà scontro fra le due civiltà.
RECENSIONI
La Fine del Mito
La matrice allegorica ha spinto Malick a cullare questo progetto fin dagli anni settanta: Pocahontas è il Nuovo Mondo, fresco, solare, accogliente, non pericoloso in sé ma in quanto conteso fra culture diverse. È Amore che verrà tradito dall’europeo in cerca di nuovi territori (Smith si chiede: “Ricominciare o no con il Nuovo Mondo?” e opterà per il rifiuto della purezza), che troverà il compromesso con chi lo sa rispettare e, anche se tardi (dopo tanta sofferenza), saprà convivere con il proprio passato. L’autore può replicare le sue contrapposizioni fra Mito del Buon Selvaggio e Civilizzazione, Naturalismo Spirituale e Materialismo, con lo schematismo di fondo edulcorato nella sospensione e sottrazione di senso. Stavolta, però, l’amata e laboriosa erosione del girato in sala di montaggio restituisce una continuity drammaturgica rovinosa: magari Malick preferisce incantarsi dinnanzi all’immanenza della Natura, dipinta dalla magnifica fotografia di Emmanuel Lubezki, o immaginare poesie sugli incontri di sguardi e di corpi dei due amanti, cantando le gesta dell’Amore più puro attraverso la sua eroina, ma la lacunosità dell’esposizione e la contraddizione dell’esaltazione dell’immediatezza tradita dall’elaborazione, rovina il Tabù in un mancato delirio herzoghiano in odor di Rapa Nui. I suoi monologhi interiori, lirici e letterari (addirittura in overlapping con i dialoghi!), sono molesti, tendenziosi e fuori luogo nella loro artificiosità. Anche l’uso ossessivo del pianoforte mozartiano e delle volute wagneriane stride, come se Malick non s’accorgesse d’essere diviso anch’egli fra due culture, impossibilitato a restituire la soavità dei rumori naturali, l’incanto armonico delle visioni senza deturpare l’Eden con il proprio sapere civilizzato e acculturante, fra stilemi dissonanti e speculazioni filosofiche che tolgono, paradossalmente, naturalezza al tutto, rendendo il linguaggio freddo rispetto al rappresentato.
MALICK, NATURALMENTE
“La poesia, stavi dicendo della poesia”. Julie sorride, toccando le guance di Faye. Faye si accende una sigaretta nel vento. “E’ solo che non mi è mai piaciuta. E’ un modo di girare intorno alle cose. Anche quando mi piace, non è altro che una maniera molto obliqua di dire l’ovvio, almeno così mi pare”. Julie sorride. Ha una fessura fra gli incisivi. “Olè”, dice. “Ma considera che pochi, pochissimi di noi sono in grado di affrontare l’ovvio”.
(“Piccoli animali senza espressione”, David Foster Wallace)
Badlands (La rabbia giovane, 1973) e Days of Heaven (I giorni del cielo, 1978) erano in effetti due grandissimi film, contrassegnati da una coraggiosa aritmia narrativa, da un utilizzo inedito e personale del paesaggio e da personaggi sorpresi nell’interzona tra il vero e l’assurdo. La sottile linea rossa (1998) poteva essere facilmente scambiato per un grandissimo film, ma lo era solo a frammenti, come la propria architettura; immediatamente riconoscibile come “film di Terrence Malick”, riproponeva infatti tutte le cifre apprezzate vent’anni prima ma amplificava, abusandone, il ricorso alla narrazione in voice over (nella fattispecie, una eccessiva frammentazione di voci diegetiche interiori) ed esplicitava (troppo) i perché e i percome delle frequenti digressioni naturalistiche, insistite pause narrative poste dal montaggio a mo’ di intercalare tra una sequenza e l’altra o, spesso, anche all’interno di una stessa sequenza. Il che ci porta dritti a The New World che, se da un lato limita a tre i flussi di coscienza intrecciati che scandiscono il film, dall’altro auspica in maniera chiara fino al banale quel ritorno allo stato di natura già enunciato a chiare lettere ne La sottile linea rossa. La nota storia d’amore tra il capitano inglese John Smith (il bel Colin Farrell) e la nativa americana Pocahontas (Q’Orianka Kilcher, 15 anni portati malino) è così la storia dell’incontro/scontro tra due Mondi che, idealmente, invertono di continuo il proprio status evolutivo, col Vecchio (continente) che trova nel Nuovo un vecchio atavico e primordiale al quale bisognerebbe tornare per rinnovarsi veramente e rimediare ai guasti dei rapporti sociali “contro-natura”, responsabili della malvagità dell’uomo moderno. Impossibile. Ce lo dice la Storia e la storia di Pocahontas la quale, non a caso, una volta strappata al suo mondo troverà simbolica morte prematura. Certo, il tutto è messo giù da Malick dannatamente bene e il suo rimane un cinema personale, fuori dal tempo, coraggioso: perennemente sospeso tra l’epico e l’intimo (tra il “campo lunghissimo” e il “dettaglio”) e segnato dal continuo compenetrarsi di realtà oggettiva e soggettiva, The New World concede poco o nulla allo spettacolo, a cominciare dallo sviluppo narrativo ellittico che rifiuta la chiarezza espositiva degli eventi in favore di un loro farsi enigmatico; fa la sua parte il montaggio, costellato di micro-jump cuts che contribuiscono a dotare il film di quell’aura di frammentaria sinfonia visivo/sonora, che costituisce gran parte del suo fascino. “Cinema di poesia”? Forse, e proprio per questo capace di sublimare quella gabbia tematica che vede nella superiorità etica dell’uomo selvaggio, teorizzata da Rousseau, il fin troppo esplicito referente filosofico, contaminato sì da panteismo ateistico, naturalismo e animismo, ma quasi ovvio nelle sue linee guida principali. Buone ma non memorabili le musiche di James Horner, con splendide intromissioni di Wagner (Das Rheingold, nel quale sono anche rintracciabili delle “affinità tematiche” col film di Malick) e Mozart (Piano Concerto No.23).
TROVERÒ GIOIA IN TUTTO CIÒ CHE VEDO
Film arcano, magico, aurorale, The New World non è affatto quel "Malick minore" che si va diffondendo, ovvero una stanca e logora iterazione di formule autoriali già esaurite nella manciata di titoli precedenti, ma rappresenta, al contrario, una sinfonia visiva di ancestrale bellezza, una partitura cinematografica di gloriosa, stupefacente suggestività. In questa pellicola lo stile magnificante dell’autore de I giorni del cielo (il titolo senz'altro più affine a questo nella sparuta filmografia malickiana), il suo stregante afflato lirico e il suo rigenerante stupore sono portati alle estreme conseguenze. The New World mette in scena uno sguardo definitivamente palingenetico: uno sguardo capace di mostrarci le cose come se le vedessimo per la prima e insieme l'ultima volta. Uno sguardo latore di un'ineffabile, straziante primultimità. Se La sottile linea rossa radicalizzava già le soluzioni stilistiche de La rabbia giovane e I giorni del cielo piazzandole sotto l’insegna dell’interrogativo e del conflitto ("Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura?", si chiedeva il soldato Witt in apertura di film), The New World le spinge, per così dire, al punto di non ritorno, facendole letteralmente esplodere. La meraviglia e l'incanto abitano ogni inquadratura, attraversano ogni immagine, fecondano ogni fotogramma. L'intero film pare animato dallo spirito che la melliflua voce over di Pocahontas invoca nell'incipit: "Vieni Spirito, aiutaci a cantare la storia della nostra terra".
Lo stile si fa fenomenologia dello stupore, pura epifania visiva, giubilatoria contemplazione dell'esistente. Criptica e imprevedibile più che mai, la scrittura filmica procede per illuminazioni improvvise, folgorazioni laceranti, meravigliate rivelazioni del mistero. È il montaggio a costituire il procedimento principe nella definizione di questo stile epifanico: Malick trascura ogni intento narrativo e piattamente descrittivo per scomporre il continuum spazio-temporale in sontuoso affresco panteistico, in trionfante polittico animistico, frugando costantemente nelle pieghe del visibile a caccia della scintilla divina nascosta nelle cose. Non c'è sequenza che riproduca una singola azione nella sua durata naturale, il tessuto cronologico viene squarciato alla ricerca del senso segreto che lo innerva. La cinepresa (quasi esclusivamente macchina a mano e steadicam; un'infinità di false soggettive) sorprende il movimento sinuoso di un serpente d'acqua, scruta l'elegante incedere di un ragno, indugia su una siepe perfettamente tagliata che lascia intravedere i rami contorti al suo interno: la verità non è mai dove si presenta con i caratteri dell'evidenza, va cercata, scovata, trovata. "Dove? Non morirò finché non avrò trovato".
WILD AT HEART
Ed elli a me: <<Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte>>
Dante, Inferno, Canto III v.76-78
The New World è un vascello che rompe le placide acque del Paradiso/Inferno e, evaporata la narrazione tradizionale, rammenta gli ingredienti per fare cinema: riprese fluide e avvolgenti, ferme anche sull’unico ballo di un albero al vento, squarci diegetici di sublime astrazione, una voce off tutta evocativa oltre il significato apparente. Il vecchio Malick nella lunga, inattaccabile prima parte canta la danza tribale dell’amore, capace di esprimersi senza parole ma solo con gesti significanti; il metro può apparire canonico ma la mdp trova sempre un’inquadratura “altra”, angolata o stravolta di sbieco, in cui la coppia impossibile non viene mai canonicamente rappresentata. Dall’ammaliante oasi incantatoria alla (in)civiltà, l’inquadramento dei rapporti umani nel tessuto tradizionale può falsamente dirsi una flessione: al contrario il regista cambia repentinamente film, vira sul melò duro e frontale ma lo governa con mano suprema, senza rinunciare alla potenza dell’evocazione (con sprazzi di sapida ironia, il selvaggio dinanzi al verde domestico del giardino reale) è capace di soffiare teneramente la battuta sulle labbra dei suoi miseri fantocci. Non occorre infoltire l’acritico drappello malickiano, che da anni sopravvaluta ed incensa il mito di questo regista, per ammettere che il film distrugge e commuove; non si deve peraltro impalmare l’esile trama, cui subito perdoniamo la meccanica dell’intreccio, ma il riaffiorare del livello primario, la festa mascherata dell’immagine – fissa, trattenuta, deforme, patetica - dove sono tutti invitati. Colin Farrell sopravvive in funzione della pellicola, meno cane di ciò che si immagina; Q'Orianka Kilcher è una memorabile madonna della foresta. Il vascello è sempre in viaggio, osserva la luna matrigna, il cigno selvaggio civilizzato muore.
RADICI
Con la sintesi e la semplicità del genio, Malick offre – all’inizio di questo film dalla bellezza maestosa, stordente e intimidente a un tempo – la spiegazione sulle radici di un mito, sedimentato e continuamente rielaborato nel corso del tempo, della società statunitense e sulla sua genesi come società borghese allo stato puro. “Qui c’è buon terreno per tutti, non avremo padroni che ci rubino il frutto della nostra fatica, gli uomini non saranno preda gli uni degli altri”; così dice il personaggio interpretato da un Colin Farrell stranamente quieto (ma pur sempre meno incisivo degli intensi partner, Christian Bale e Q'Orianka Kilcher), e in effetti la società americana si sviluppò senza doversi scontrare con l’imponente apparato economico e politico che le coeve società europee conoscevano: assenza di un’aristocrazia fondiaria che si appropriasse parassitariamente della ricchezza, e assenza di una moltitudine quasi servile sfruttata e legata a una terra non sua. Al posto delle due figure tipiche della società europea nell’età dell’assolutismo (il signore e il suo apparato di dominio, la massa servile), nelle colonie americane dominò la figura dell’uomo libero, padrone dei mezzi di produzione e proprietario dei frutti del suo lavoro. La grande abbondanza di terra libera e il flusso schiavistico impedirono poi per lungo tempo il costituirsi di una popolosa manodopera sottopagata: così, poté davvero sembrare che il bianco povero fosse tale solo per sua colpa, e la figura ideologicamente dominante divenne da subito quella del libero proprietario che lavora direttamente la propria terra e se ne assicura i frutti; furono gli ideali e i bisogni di questo ideal typus (quello che oggi chiamiamo self made man) a imporsi nella società, secondo l’equazione illusoria ma ferrea lavoro = proprietà = libertà, che neppure le drammatiche smentite della realtà riuscirono mai a spezzare.