Drammatico, Recensione

NATHALIE…

TRAMA

Scopertasi tradita, Catherine decide d’ingaggiare una puttana: Marlène, sotto il nome di Nathalie, dovrà sedurre il marito della donna e riferire alla medesima i particolari della relazione.

RECENSIONI

Il triangolo, lui/lei/l’altra: esiste nulla di più banale? Anne Fontaine non ha paura del banale: la sua macchina da presa accarezza le pieghe del quotidiano, spia il ménage di una coppia ordinaria, coglie i dettagli insignificanti in cui si può (si deve?) rinvenire l’essenza di quella strana cosa chiamata amore. Banalità dei personaggi, fantasmi che cercano invano di sfuggire al peso del silenzio (le note laceranti di Michael Nyman velano i dialoghi di circostanza e caricano i gesti di un dolore soffocato); banalità dei luoghi e delle azioni, frammenti di esistenze borghesi impercettibilmente svuotati di senso; banalità dei sentimenti, desiderio odio rancore rimpianto in funerea fusione. Su una tela di livida monocromia discende, goccia dopo goccia, l’imperfetta e superba (ri)costruzione cinematografica: Catherine dirige Marlène “come” Nathalie (la regista e l’attrice discutono, anche animatamente, sulla definizione del personaggio), la guida e si fa guidare nelle location del (proprio) desiderio, la usa e ne è usata, in un rapporto osmotico che ogni tentativo di definizione impoverirebbe irrimediabilmente. Fontaine lascia il campo aperto a tutte le ipotesi, evitando di sciogliere i nodi creati, rifiutando con sensibilità ogni tentazione catartica (l’epilogo sospeso), concedendo al magnifico duo femminile (non inedito – vedi 8 FEMMES – ma sempre incantevole nei propri precari equilibri) lo spazio che merita (degno di lode anche un Depardieu di lacerante sobrietà). Un film “minimo”, non privo di difetti (alcune dissolvenze non abbastanza misteriose – fatale ossimoro) e sommessamente magico, che lascia fuori dalla porta noiose prurigini, rebus psicologici e ciarpame vario, nel segno di un cinema che vuole solo (solo?) (s)velare l’ombra di un sogno.

Il soggetto non e' molto originale, ma le premesse intrigano. C'e' un insolito triangolo in cui il terzo incomodo e' una prostituta pagata dalla moglie per sedurre il marito e confessare ogni piu' intimo dettaglio del tradimento consumato. Basterebbe un cortometraggio per raccontare gli sviluppi previsti dal copione, incentrati su una passione tutta di testa e mai carnale, invece Anne Fontaine (co-autrice della sceneggiatura e regista della pellicola) si dilunga negli incontri e nei confronti, nelle incomprensioni e nei chiarimenti, nei dubbi e nelle congetture, aggiungendo ogni volta poca polpa narrativa, non abbastanza comunque per evitare la ripetitivita' e rendere meno ovvio il presunto colpo di scena finale. Non tutto, pero', e' fuori fuoco: alcuni dialoghi, pur nella loro letterarieta', provano a raccontare, e ogni tanto ci riescono, i pericolosi fantasmi dell'incomunicabilita', e Fanny Ardant e' interprete preziosa per dare spessore ai silenzi e nerbo ai dialoghi. Meno convincente Emmanuelle Beart, di una bellezza folgorante ma ostentata, che non diventa mai vera sensualita'. Per tacere della svogliatezza di Gerard Depardieu, vittima pero' di un personaggio poco caratterizzato e di un doppiaggio quanto mai inopportuno. Particolarmente mortifera la fotografia, che gioca sull'assenza di contrasti e avvolge la vicenda in una fastidiosa patina opaca, routinario il contributo sonoro di Michael Nyman alle atmosfere e poco incisivo il taglio contratto della regia. La Fontaine, infatti, anestetizza le possibili implicazioni attraverso una messa in scena piatta e monotonamente uniforme, che raggela i gesti quotidiani della vita di coppia come i siparietti sdrammatizzanti con la madre. Per non parlare delle pulsioni erotiche, protagoniste indiscusse ma sempre forzatamente sottotono, sia quando il sesso viene raccontato (le glaciali confidenze della prostituta, un bignamino del kamasutra piu' meccanico che fantasioso e senza il sudore della verita'), sia nei goffi tentativi espliciti (le pose plastiche della Beart desnuda in costumino sadomaso, l'improbabile abbordo della Ardant). Il punto di vista che ne deriva, tutto al femminile, e' quindi raffinato, a tratti coinvolgente, ma promette piu' di cio' che riesce a mantenere.