TRAMA
In una cittadina del Michigan, a metà degli anni Settanta, le cinque sorelle Lisbon, adolescenti d’inquietante beltà, sono l’oggetto del desiderio, della curiosità e della venerazione dei ragazzi del vicinato. La più piccola, Cecilia, tenta il suicidio: quello che seguirà è destinato a rimanere scolpito per sempre nella memoria dei sopravvissuti.
RECENSIONI
Al suo esordio nel lungometraggio, Sofia Coppola, figlia del regista, per il quale è stata attrice nel "Padrino- Parte III" (era la figlia di don Mike), sceglie una storia ben poco gradevole, programmaticamente "antipatica", che offre un ritratto niente affatto consolatorio dell’adolescenza, e si assume tutti i rischi del caso. Sarebbe stato facile farne una bella fiaba, buttarla sul ridere facendo un film da college o snaturando il tutto in un pasticcio dark "maledetto" e manierato: saggiamente, l’autrice ha optato per un tono onirico, che non esclude l’orrore e la tragedia, ma li sublima nell’essenza del ricordo. "Il giardino" è certamente un film sull’ossessione, sulla vita come sogno, sul contrasto tra purezza cattolica e sensualità pagana (le sorelle sono viste quasi come sirene), sulla persistenza del desiderio, ma anche un trattato sull’amore, forza universale tanto intenso da dare la morte (i genitori delle ragazze) e tanto vitale da trionfare sulla sua stessa maledizione, resuscitando i morti nel ricordo di chi sopravvive (i ragazzini adoranti); ed è, contemporaneamente, una magnifica riflessione sull’adolescenza, vista senza rimpianti alla "come eravamo" o alla "stand by me". I riti dell’età giovanile (le partite, i balli, le lezioni) sono tasselli di vita quotidiana, banali quanto i dialoghi (ad esempio quelli della festa che si conclude con il suicidio di Cecilia), speciali solo nel ricordo di chi, dopo venticinque anni, sente il bisogno di mitizzarli, perché in fondo non è mai realmente maturato (vedi il fidanzato di Lux, che deve interrompere la rievocazione per fare la terapia di gruppo). I personaggi, particolarmente quelli maschili, sono bloccati ad uno stadio d’infantile stupore (che la regista si diverte ad evocare attraverso le immagini, i colori, i suoni tipici della "American Beauty" delle pubblicità), e si ha la sensazione che le sorelle Lisbon siano condannate a morte proprio dalla loro maturità emotiva, che le rende estranee al resto del (loro) mondo. Tutto perfetto, dunque? Non proprio: perché, pur dando prova di intelligenza e sensibilità, la giovane Coppola sembra incapace di decidere il registro della narrazione, oscillando continuamente tra uno sguardo algido, da melò intellettuale, e una partecipazione emotiva innegabile, sia pur misurata, e determinando così un ininterrotto succedersi di momenti indimenticabili (la festa in casa Lisbon, la telefonata, il finale) e di altri decisamente convenzionali (il ballo, la perdita della verginità nel campo da gioco, l’accostamento tra la ragazza e l’uragano). E il gioco delle sovrimpressioni, a lungo andare, stanca. Un peccato: ma la ragazza ha il potenziale (e gli appoggi) per una bella carriera. Cast esemplare.
E' sempre difficile mantenere l'attenzione dello spettatore quando un film inizia spiegando esattamente come si succederanno gli eventi. Ma quello che sembra più interessare la regista, non è tanto raccontare una storia, quanto celebrare un'atmosfera, e il film ambisce ad interpretare in modo personale il delicato equilibrio che separa i sogni infantili dai turbamenti dell'adolescenza. Nonostante i buoni propositi, però, l'assenza di una progressione narrativa si fa presto sentire, anche perché lo sguardo con cui la regista accarezza i suoi personaggi è, sì complice, ma bloccato da un distacco che azzera la partecipazione emotiva, lasciando ampio spazio alla noia. Gli artifizi tecnici, poi, (le frequenti sovrimpressioni, lo split screen, i continui controluce) rischiano di diventare un pretenzioso esercizio di stile che nulla aggiunge. Bella la colonna sonora, ma non sufficiente per rendere un'atmosfera che non supera mai i confini del freddo gioco intellettuale. E alla fine la cosa più triste è constatare come lo scorrere del tempo si sia abbattutto, impietoso, sulla, non troppi anni fa, bellissima Kathleen Turner.
Esordio della figlia di Francis Ford Coppola, già sua pessima attrice in Il Padrino parte III e terribile sceneggiatrice dell’episodio da lui diretto per New York Stories. Ma pare esser cresciuta bene: già il suo corto Lick the Star, dell’anno precedente, era un’impietosa descrizione in bianco e nero dei rapporti fra teenager al college. Qui prende le mosse dal romanzo “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides e restituisce una pellicola sospesa nel mistero, dove la Morte soffia gagliarda su corpi giovani appestati dal male di vivere. La regista confonde (anche troppo programmaticamente) le acque, getta alla rinfusa “nella stanza” sequenze, reazioni, azioni e personaggi, puntando a restituire prima di tutto una sensazione, più che una spiegazione razionale e consolatoria. Non le riesce del tutto, in quanto quest’ultima arriva all’attenzione fin troppo chiaramente, vanificando, ma solo a conti fati, il suo lavoro di sottrazione e destrutturazione, che strega e ammalia comunque nella miriade di dettagli. È un giallo esistenziale inquietante con i modi da spensierata commedia giovanile Pop anni sessanta, sul filo del surreale, del grottesco. C’è anche il tentativo di filmare l’enigma femminino agli occhi maschili e l’allegoria della malinconica, straziante distanza che separa i sessi innamorati durante l’adolescenza.